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Messaggero di sant'Antonio
Italiani d'Argentina
  
27 giu 2007Intervista all’onorevole Franco Narducci: Italia, un Paese a due velocità - di Luciano Segafreddo

C’è interesse nel mondo per l’Italia, soprattutto tra le nostre comunità e associazioni. Ma sono i giovani italiani a partire per l’estero, attratti da possibilità di lavoro ad alto livello in Spagna, Irlanda e Stati Uniti.
ROMA,26 GIU. (Italia Estera) - Padre Luciano Segafreddo è il direttore del diffusissimo  "Messaggero di sant'Antonio" edizione italiana per l’estero. Questa volta ha intervistato l’on. Franco Narducci .  
 
Dopo aver ricoperto l’incarico di Segretario Generale del Cgie, di presidente delle Acli e di vicepresidente Sindacati cristiani in Svizzera (Syna), Franco Narducci (nella foto), alle ultime elezioni politiche, è stato eletto nelle liste dell’Ulivo, in seno alla Circoscrizione Estero-ripartizione Europa (il più votato). Narducci è componente della III Commissione Affari Esteri e Comunitari.
Segafreddo: In questo 2007, la memoria della firma del Trattato di Roma è stata un’occasione per ridare slancio alle future prospettive dell’Unione Europea. Quali sono i traguardi raggiunti ma anche le battute d’arresto che l’Unione europea deve superare per raggiungere gli obiettivi di 50 anni fa?
Narducci. L’Europa uscita da una guerra drammatica con oltre 50 milioni di morti, attraverso i Trattati firmati a Roma ha costruito innanzitutto la pace. È questo l’elemento fondamentale che sta alla base degli sviluppi che hanno portato all’Europa benessere, progresso e un ruolo nel mondo. Poi, attraverso la cooperazione e i successivi passi fatti dagli originari 6 Paesi fino all’attuale Europa dei 25 – più quelli che si aggiungeranno –, l’Unione ha conquistato nel mondo un ruolo molto importante, in linea con la sua storia: il ruolo di un continente che ha esportato la civiltà ovunque anche se, in qualche circostanza, con modalità poco edificanti. Dopo aver costruito questa casa, bisogna ora allargarla, come sta avvenendo, per darle una prospettiva adeguata al mondo in cui viviamo: della scienza, delle conoscenze, dei valori sociali, della solidarietà. Il Trattato costituzionale in questa prospettiva è un aspetto fondamentale perché l’Europa che conosciamo è stata costruita pezzo su pezzo, mattone su mattone. Ora ha bisogno di essere cementata su valori fondamentali, riconosciuti da tutti, soprattutto dai Paesi che a questo processo si sono aggiunti. Proprio in questo risiede il valore del Trattato costituzionale che stenta ad essere rilanciato e approvato da tutti.
In questo primo anno d’attività parlamentare, su quali temi ha rivolto la sua attenzione e quali sono state le circostanze che hanno attivato interventi, interpellanze o emendamenti per migliorare il rapporto tra l’Italia e i nostri connazionali all’estero?
Sarebbe facile rispondere, se potessi esporre i contenuti della Finanziaria, madre di tutte le leggi, che contiene tanti elementi e provvedimenti che riguardano anche i nostri concittadini all’estero. La mia attività parlamentare – come quella degli altri colleghi eletti dai connazionali all’estero – riguarda in genere tutto il campo dei loro interessi. Personalmente ho rivolto in particolare la mia attenzione alla promozione della lingua e alla diffusione della cultura italiana nel mondo con una proposta di legge sulla riforma della legge 153, già assegnata in sede consultiva alle sedi competenti che dovranno avviare l’iter. Ma sono firmatario di altre leggi riguardanti i concittadini italiani all’estero, come quella del riacquisto della cittadinanza da parte delle donne che, sposandosi, l’hanno persa per naturalizzazione. È una legge molto importante per gli oriundi e i discendenti degli italiani all’estero nati prima del 1948 quando cioè le loro madri non potevano trasmettere la cittadinanza, come poi è avvenuto con la promulgazione della Costituzione italiana (1° gennaio 1948). Un’altra mia proposta di legge riguarda la sanatoria sulle pensioni. Dal punto di vista delle interpellanze a risposta immediata, sono stato molto attento su alcuni problemi fondamentali, come il trasferimento dei detenuti condannati a una pena detentiva in un Paese estero. In base alle convenzioni europee, l’obiettivo è che essi scontino la pena nel loro Paese nativo permettendo così alle loro famiglie di poterli visitare. Altro settore d’impegno riguarda i diritti degli italiani in campo pensionistico. Basti pensare al grande rumore e alle difficoltà oggettive che ha sollevato il nuovo accordo dell’Inps con un Istituto bancario per il pagamento delle pensioni all’estero. In questi giorni sono stato coinvolto dal disposto di legge per l’accatastamento dei fabbricati una volta ritenuti rurali oppure non accatastati, un problema che riguarda decine di migliaia di italiani residenti all’estero e che, entro il 30 giugno, devono risolvere questo problema a fronte di sanzioni pecuniarie abbastanza consistenti. Mi sono impegnato per una proroga perché, oggettivamente, le difficoltà riguardanti gli italiani all’estero sono ben superiori a quelle degli italiani che vivono in Patria.
Quali obiettivi intende raggiungere il disegno di legge sulla promozione della lingua e della cultura italiana, di cui lei è il primo firmatario?
Le comunità italiane all’estero sono sempre state protagoniste in questo campo, e se oggi ci sono comunità che parlano ancora la lingua italiana e sono legate alle loro origini e al nostro grande patrimonio culturale, è perché le comunità stesse si sono attivate. Sono state artefici della diffusione ma anche del mantenimento di questo patrimonio di valori, di cultura che l’Italia ha, e che all’estero è particolarmente sentita. La legge 153, che regola la promozione e la diffusione della lingua e della cultura per gli italiani nel mondo, risale al 1971. Allora, in particolare in Europa, il progetto riguardava gli italiani che sarebbero rientrati in Patria. I figli dovevano quindi studiare la lingua italiana in vista del loro reinserimento nel sistema scolastico italiano o nella società italiana. Un progetto evidentemente sbagliato perché non realizzato. Oggi siamo invece immersi in un progetto d’integrazione molto avanzato, ed è impossibile pensare che la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo venga gestita nell’ottica del sistema scolastico italiano, con il contingente degli insegnanti di ruolo che hanno avuto in passato un ruolo fondamentale, ma ora continuamente ridotto dando luogo a inefficienze, e creando disparità di trattamento e di servizio rispetto agli insegnati assunti dagli enti all’estero. Da questo punto di vista, la mia proposta di legge intende prima di tutto certificare qualitativamente gli enti, gestori di iniziative di cultura e lingua italiana, che non devono avere un futuro se non sono all’altezza dei loro compiti. Attraverso un sistema di convenzioni triennali, potranno realizzare, con il contributo pubblico, iniziative, corsi di lingua e cultura italiana diretti ai nostri giovani, ma anche agli oriundi e ai cittadini stranieri che intendono apprendere l’italiano. Quindi l’obiettivo di questa proposta è che si separi nettamente quello che è promozione della cultura e della lingua italiana dai compiti delle scuole italiane all’estero che vanno incrementate, ma che devono essere di qualità e non disgiunte dall’obiettivo del bilinguismo per avere la stessa posizione e lo stesso riconoscimento che può avere una scuola inglese o francese. Solo attraverso il sistema bilingue noi riusciamo a trasfondere il nostro patrimonio culturale, soprattutto a fare «scuola italiana», elemento estremamente importante per la valorizzazione del Sistema Paese.
Il mondo dell’informazione è stato oggetto di discussione nella recente assemblea plenaria del Cgie, e c’è l’attesa di un piano organico del settore da parte del governo italiano. Dalla conoscenza dell’universo dei media per l’altra Italia, quali criteri e orientamenti suggerisce per garantire il loro futuro?
Tralasciando ogni riferimento a Rai International, che è un cantiere continuamente aperto, credo che si debba fare di più per diffondere la stampa italiana all’estero non più con finanziamenti a pioggia, ma con criteri nuovi, viste le poche risorse che vengono elargite. C’è un’evidente disparità tra i quotidiani fatti all’estero e l’enorme ricchezza di periodici mensili inviati dall’Italia, spesso di buona fattura, e che coprono una presenza planetaria. Occorre, però, una grande trasparenza: che si metta fine a vari «trucchetti» che, indubbiamente, ci sono per accaparrarsi più risorse. Occorrono prodotti di qualità da un punto di vista culturale, per l’informazione che questi media offrono nella nostra lingua su argomenti e su temi affrontati. Non devono dare spazio alle stesse notizie, ma segmentarsi e specializzarsi puntando su aree tematiche di qualità. Così, le risorse potranno fruttare meglio.
Come ex Segretario Generale del Cgie, quale riflessione può aggiungere al vivace dibattito sul suo ruolo e sulla sua riforma?
Vorrei premettere che il Cgie è ancora un organismo fondamentale, opponendomi a quanti sostengono, a voce alta, la sua chiusura. Il suo ruolo è certamente diverso per la presenza, nelle due Camere, dei 18 parlamentari eletti dagli italiani all’estero, anche se nello spirito della Costituzione non c’è un vincolo di mandato, e ognuno è responsabile di se stesso. Il Cgie rimane un organo insostituibile di raccordo con il Parlamento italiano, con le istituzioni, il territorio, le comunità e soprattutto con i Comites. Dal punto di vista degli scopi e dei suoi obiettivi, deve però essere rivista la sua missione, e pensato come un laboratorio adeguato alle nuove situazioni, con una ridefinizione del numero e delle modalità d’elezione dei consiglieri, individuando bene i nuovi ruoli.
Una delle emergenze che dovrebbe impegnare maggiormente il mondo politico italiano e il Parlamento europeo riguarda la mobilità delle giovani generazioni per motivi di studio, di lavoro o per crescita professionale. Ci sono delle risposte alle istanze dei giovani residenti in Italia e all’estero?
Come parlamentare, ora vivo in Italia, salvo i fine settimana, e constato che il problema dei giovani è veramente grave. Già nella definizione del termine «giovani» si è determinata una situazione davvero incredibile: quelli che hanno 32-33 anni, non hanno ancora accesso al mercato del lavoro o non lo hanno in modo qualificato e adeguato ai loro titoli, non riuscendo così a maturare esperienze. Tutto ciò è dovuto prima di tutto al fatto che la domanda e l’offerta «non s’incontrano»: in Italia non c’è un sistema d’orientamento professionale come avviene, invece, nei Paesi anglosassoni o come in Germania, Svizzera e Austria per cui la catena di trasmissione: scuola dell’obbligo-università-mondo del lavoro è diversa, ha le porte chiuse all’occupazione e genera tantissimo precariato. Ci sono segnali di miglioramento, l’occupazione va meglio, però ci sono tantissimi giovani con delle superqualifiche, e laureati con ottimi curricula che in altri Paesi verrebbero collocati sicuramente nel mercato del lavoro a livello nettamente superiore rispetto alla «generazione dei mille euro al mese» come viene definita oggi in Italia. Tutto questo ha generato una spinta verso l’estero grazie ai programmi comunitari e ad Erasmus. Ci sono delle «isole» che si stanno delineando. Per esempio a Barcellona sono molti i giovani laureati italiani che  trovano un’opportunità lavorativa. Un’altra giovanile presenza italiana, dai 30 ai 40 anni, si trova in Irlanda: come impiegati in settori molto avanzati delle nuove tecnologie. Come avveniva in passato, ci sono ancora possibilità occupazionali, anche se i giovani vanno via con i notes books, il cellulare e con la conoscenza delle lingue. Tutto questo reca sicuramente un danno all’Italia che ha fatto degli investimenti enormi sul piano della formazione e della scuola, senza avere un ritorno per il Paese. Bisogna dire ai giovani che devono valutare attentamente il loro percorso di formazione, che non è necessariamente l’università; e alle istituzioni, di cui faccio parte, che occorre introdurre un sistema d’orientamento professionale più aderente alla realtà del mondo del lavoro, convincendo i giovani a studiare le lingue. All’estero, le nostre istituzioni devono tener conto di questa realtà e anche le associazioni devono fare un passo avanti per incontrare i giovani dove sono, per aprire dei canali di dialogo.
Riguardo alla mobilità dei nostri giovani, quali sono le offerte di lavoro e le destinazioni più richieste in Europa?
Offrono delle buone possibilità di lavoro la Spagna, soprattutto Barcellona e Madrid, e per quanto riguarda il settore dell’informatica e delle nuove tecnologie, l’Irlanda. Molti giovani italiani sono inseriti in Europa anche nell’ambito bancario, nel terziario, e soprattutto nella ricerca scientifica, un settore in cui l’Italia non riesce a crescere mentre all’estero i suoi laureati trovano accoglienza. Visitando di recente i centri di ricerca sulla biologia molecolare o sulle staminali dell’Università di Basilea, ho incontrato tanti giovani italiani tra i 30-40 anni che hanno trovato un’occupazione, crescendo in professionalità. In America ci sono fenomeni anche abbastanza controversi di giovani italiani che vanno carichi di speranze a New York, ma che poi trovano difficoltà nella dura realtà e nel costo della vita.
Dopo tanti anni d’impegno come presidente delle Acli in Svizzera e come Segretario Generale del Cgie, quali suggerimenti si sente di dare alle associazioni?
Nel mondo dell’associazionismo c’è di tutto e di più. Ci sono momenti di grande partecipazione, soprattutto quelli legati alla cultura, ma ci sono anche delle realtà molto diverse che variano da continente a continente. In Sud America, per esempio, dove l’associazionismo è sempre stato uno dei punti forti e uno dei pilastri della nostra presenza, l’invecchiamento dei quadri dirigenti esige la formazione di nuovi responsabili, anche se il compito non è sempre facile. Vi è in generale una minore partecipazione alla vita delle associazioni, una minore disponibilità ad operare all’interno delle loro reti e delle loro iniziative tradizionali. Oggi la motivazione dell’«incontrarsi» e dell’essere legati alle proprie origini non basta più; ci sono linguaggi nuovi e l’associazionismo se non è proiettato sulla valorizzazione delle giovani generazioni, non ha futuro. Bisogna assolutamente capire questo processo, intercettare le nuove esigenze e i nuovi linguaggi per dare ai giovani degli spazi reali non più fondati su valori che animavano l’associazionismo del passato ma su valori adeguati al loro modo di essere e di vivere la società, e di intenderla. Oggi ci sono alcune realtà che riguardano il patrimonio culturale italiano come l’arte, il cinema e lo sport che hanno un grande impatto sulle giovani generazioni italiane all’estero: «canali» su cui bisogna agire. Concludendo, credo che non dobbiamo disperdere la ricchezza del nostro retaggio, abbandonando però le vecchie forme patriarcali di gestione e guardando alla realtà, con un’apertura nuova per favorire la partecipazione e l’aggregazione.
 
 Luciano Segafreddo / Italia Estera 



 
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