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Emigrazione: Note storiche per non dimenticare - Quanti sono gli italiani all'estero?

    L’emigrazione italiana non è stata una realtà né isolata, né remota nel tempo. Anche i ricchi paesi del Nord e del Centro Europa hanno conosciuto un grande esodo. Nel periodo 1845-1915 i flussi diretti oltreoceano erano composti per il 40% da britannici, il 16% da italiani (allora in buona parte originari del Nord), il 13% da tedeschi e, in misura minore, da persone di altri paesi, quali l’Austria-Ungheria, la Spagna, la Russia e i paesi scandinavi. Tra il 1900 e il 1920 furono circa 20 milioni gli europei che partirono alla volta del continente americano e anche di più furono i migranti europei del secolo precedente, al finire del quale l’Italia andò assumendo un protagonismo sempre maggiore.

    Questi flussi sono continuati anche nella seconda metà del secolo scorso e hanno rappresentato un fattore di primaria importanza per l’evoluzione del nostro paese. Nel ventennio 1950-1970 l’Europa diventa lo sbocco principale e assorbe quasi il 70% degli espatri.

     

    Negli anni ’60, tra i flussi in uscita (in media 264.000 l’anno) e quelli di ritorno, si arriva al coinvolgimento annuo di circa mezzo milione di persone. Il 1961 è l’anno del maggior numero di espatri (387.000), mentre nel 1962 si tocca l’apice per quanto riguarda i rimpatri (229.000). In

    quegli anni, come nel decennio precedente, sono intense anche le migrazioni interne, che portano i cittadini del Meridione e del Nord-Est a spostarsi verso le regioni del Nord-Ovest per sostenerne lo sviluppo. Al censimento del 1961, circa 6 milioni di persone (ovvero 1 italiano su 10) risiedono in una regione diversa da quella di origine.

     

    Nel decennio successivo (1961-1970) gli italiani inviano in Italia dall’estero ben 8 miliardi di dollari, di cui il 55% al Meridione: la Sicilia, nel 1970, si colloca al primo posto con una quota del 16%. Ma anche in precedenza l’impatto delle rimesse è notevole e nel 1924, queste somme

    arrivano a costituire il 30% delle entrate della bilancia commerciale. Questo fiume di denaro è servito per finanziare l’acquisto delle materie prime e assicurare una disponibilità di credito agli Enti locali, come anche a migliorare la vita nel Meridione, affrancare le famiglie degli emigrati dai debiti contratti con gli usurai, coinvolgere le donne rimaste a casa nella gestione dei conti correnti, mentre non è stato funzionale al pieno decollo del Meridione, anche a causa del frazionamento dei terreni in piccole proprietà, di una coltivazione scarsamente innovativa e delle ridotte dimensioni del commercio.

     

     Infine, cambiati i tempi, nel 1998 le rimesse degli stranieri in Italia (292.153 euro) hanno superato quelle degli emigrati (276.312 euro). Nel periodo tra il 1970 e il 1999 l’Italia, comunque, ha ricevuto 28,5 miliardi di dollari dai suoi emigrati, mentre oggi i flussi sono di 233.000 euro in entrata e di 2.093 milioni di euro in uscita.

    Il 1975 è l’anno simbolo dell’“inversione di tendenza”, con i rimpatri che superano complessivamente gli espatri di oltre 30.000 unità (123.000 i primi, 93.000 i secondi). Negli anni ’80 la media delle partenze è pari a 80.000 unità e altrettanti sono, in media, i ritorni; negli anni

    ’90 si registra un ulteriore calo, con una media annuale che scende a circa 50.000 unità per le partenze e a circa 42.000 per i ritorni. Nel 2001 e nel 2002 le partenze sono, rispettivamente, quasi 47.000 e 34.000, i rientri 35.000 e 44.000, e anche attualmente non ci si discosta da questi

    numeri.

    Tra chi rientra vi sono anche i “vecchi” emigrati giunti all’età della pensione, che preferiscono vivere in Italia, o fanno la spola con il paese d’emigrazione dove vivono figli e nipoti. Tra chi emigra vi è il personale al seguito delle aziende (la cosiddetta emigrazione tecnologica), diretto principalmente verso i continenti africano e asiatico. Intanto si ingrossano i

    flussi degli stranieri che arrivano in Italia e si aggiungono a quelli già insediatisi, tendenzialmente al ritmo di 300.000 unità l’anno, tanti quanti erano gli italiani diretti all’estero negli anni più intensi del Dopoguerra.

     

    Molti sono gli italiani che si trasferiscono all’estero senza effettuare la cancellazione anagrafica, perché intenzionati a spostarsi inizialmente per brevi periodi, mancando la certezza di poter trovare al di fuori dei confini nazionali, migliori possibilità di inserimento. Si stima, ad esempio, che 23.000 giovani italiani si rechino annualmente in Germania in cerca di lavoro, perlopiù senza cancellarsi subito dal comune di residenza. Numerosi sono anche i lavoratori e i tecnici, solitamente tra i 30 e i 40 anni, che restano all’estero solo il tempo necessario per finire i

    lavori presi in appalto dalla propria azienda o per ultimare la missione presso le strutture produttive delocalizzate, specialmente nell’Est Europa, con incarichi solitamente inferiori ai 6 mesi.

    Per un curioso ritorno della storia e seppure con numeri più contenuti, il Nord, come all’inizio della nostra emigrazione, è nuovamente il principale protagonista dei flussi da e per l’estero, specialmente per l’alto coinvolgimento delle regioni del Nord-Est (32,9% delle partenze

    e 44,8% dei rientri), mentre a livello regionale è la Lombardia a guidare la classifica relativa al volume dei rientri (13,8%), mentre la Sicilia prevale per le partenze (17%).

    Anche le migrazioni interne, pur essendosi ridotte, non si sono estinte. Un’indagine condotta su 50.000 laureati del Meridione ha evidenziato che di questi, a tre anni dal conseguimento del titolo, 20.000 sono disoccupati. Dei 30.000 occupati, un terzo lo è al Nord.

     

    Vi è poi lo spostamento temporaneo degli studenti universitari, una migrazione sui generis e dal rilevante impatto culturale. Il programma Socrates-Erasmus, dal 1987 al 2000, ha visto spostarsi 750.000 studenti universitari europei per trascorrere un periodo di studio all’estero.

    Nell’anno accademico 2004-2005 dall’Italia sono partiti 16.000 studenti innanzitutto dall’Università di Bologna (1.253) e poi dalla Sapienza di Roma (937) e da Firenze (690); le loro principali destinazioni sono state Spagna (6.000), Francia (2.600) e Germania (1.700).

     

    L’attuale presenza italiana nel mondo

    Sono 3.106.251 i cittadini italiani residenti all’estero secondo i dati dell’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (AIRE), aggiornati al 9 maggio 2006. La ripulitura degli archivi ha portato in un anno alla cancellazione di circa 450.000 iscritti, ma, tenuto conto anche delle risultanze degli Schedari Consolari, il numero effettivo dei cittadini italiani nel mondo è più realisticamente vicino ai circa 3,5 milioni, per cui i numeri qui riportati dovrebbero essere maggiorati del 13%.

    L’Europa si conferma come il continente di maggiore insediamento con quasi 2 milioni di persone (1.864.579) e circa il 60% delle presenze totali, di cui il 43,9% nell’Unione Europea a 15.

    A seguire l’America con 1.069.282 residenti (34,4%), di cui il 24,3% nell’America centromeridionale, e l’Oceania con 110.305 presenze (3,6%); sono invece molto distanziate l’Africa

    (41.040 presenze, 1,3%) e l’Asia (21.045 presenze, 0,7%).

     

    I primi 20 paesi di insediamento sono sparsi in ben 4 continenti: Europa, America (settentrionale e centro-meridionale), Oceania e Africa. Per quanto concerne il continente asiatico il primo paese di destinazione, Israele, si ritrova in 27a posizione, con 5.815 residenti di cittadinanza italiana, seguito da Cina, Giappone e Thailandia.

    Guidano la classifica le due nazioni europee maggiormente coinvolte nei flussi dal Dopoguerra: la Germania, con 533.237 presenze (1 ogni 6 italiani all’estero risiede in quel paese, senza che peraltro sia stato assicurato un insediamento del tutto soddisfacente) e la Svizzera, con 459.479 residenti e 68.000 frontalieri.

     

    L’Argentina, con 404.330 presenze, è il paese extraeuropeo che ospita il maggior numero di cittadini italiani e anche quello in cui l’incidenza degli italiani è più alta: si stima che la popolazione locale sia per il 50% di origine italiana. Lo ricordano attualmente 31 deputati e 8 senatori e, nel passato, 10 presidenti della Repubblica, quasi un simbolo dell’acquisita convinzione che l’italianità costituisca un elemento caratterizzante il tessuto socio-culturale del paese.

     

    Una considerazione in parte analoga può valere anche per il Brasile, secondo tra i paesi latinoamericani quanto al volume della presenza italiana (148.746 residenti), composta in misura rilevante da persone di origine trentina e veneta, tanto che in diversi centri le rispettive varianti dialettali rappresentano la lingua veicolare più diffusa.

     

    Il Brasile è preceduto da Francia (325.364) e Belgio (215.580) ed è quasi alla pari con la Gran Bretagna (145.241 presenze, 4,7%). In questi e altri paesi dell’Unione Europea, grazie alla normativa sulla libera circolazione e all’affermarsi del concetto di cittadinanza comunitaria, gli italiani hanno conosciuto nel tempo un inserimento meglio tutelato che ha ridimensionato l’equazione “essere straniero uguale essere estraneo”.

     

    La seconda collettività extraeuropea per numero di cittadini italiani, dopo quella argentina, si trova negli Stati Uniti (187.621, 6%). Meno numerosa quella, pur consistente, residente in Canada (125.554, 4%), che presenta la più alta incidenza di ultrasessantacinquenni (36,4%) e, a differenza degli USA, è rafforzata da poche centinaia di ingressi l’anno.

    In Australia (108.472 persone), la collettività italiana è la più numerosa tra quelle d’origine straniera di lingua non inglese, mentre i nuovi arrivi, ridotti sul piano quantitativo, hanno per giunta uno spiccato carattere temporaneo.

     

    Al di sotto delle 100 mila presenze troviamo quindi il Venezuela (73.128), la Spagna (56.137) e l’Uruguay (49.612), seguiti nell’ordine da Cile (27.602), Paesi Bassi (26.102), Sudafrica (primo tra i paesi africani, con 23.497 presenze), Lussemburgo (20.401) e Austria (13.004).

     

    A partire dal Perù è poi possibile individuare un ulteriore gruppo nella graduatoria dei principali paesi di insediamento che raccoglie tutti quegli Stati in cui risiede un numero di cittadini italiani inferiore alle 10 mila unità, tra i quali Grecia, Colombia, Ecuador, Messico, Israele, Croazia, Svezia, Monaco, Irlanda, Danimarca, Paraguay e Repubblica Dominicana.

     

    Chi sono, da dove vengono,

    come vivono gli italiani all’estero 

    È difficile tracciare una sorta di identikit dell’italiano all’estero, perché le diversità sono notevoli da paese a paese e all’interno di ciascuno di essi.

    Il livello di istruzione è, in media, più basso rispetto ai cittadini rimasti in Italia, anche perché l’istruzione universitaria “di massa” nel nostro paese è un fenomeno relativamente recente. Un terzo degli emigrati in Australia ha solo la licenza elementare, mentre in Argentina e specialmente in Brasile il livello è molto più elevato (rispettivamente, il 36,7% e il 44% tra laureati e diplomati), soprattutto tra gli originari delle regioni del Nord.

    Gli emigrati italiani non si caratterizzano per la giovane età. A volte gli ultrasessantacinquenni sono un quarto della collettività, come in Francia, o anche un terzo, come in Argentina e in Canada. In Australia (22,4%), poi, gli anziani prevalgono di gran lunga

    sugli occupati.

     

    Il fatto che il 50% degli iscritti all’AIRE si è registrato da meno di 5 anni è solo un apparente paradosso e si spiega per l’elevato numero di figli di italiani nati all’estero e registrati come tali (28% del totale degli iscritti all’AIRE) e, in misura inferiore, per quelli che si sono iscritti a seguito di acquisizione di cittadinanza (2,6%). In alcuni paesi hanno influito in modo significativo anche i nuovi arrivi: il 27% degli italiani residenti in Gran Bretagna risulta iscritto all’AIRE da meno di 5 anni e ciò è da ricondurre al considerevole spostamento di giovani e di professionisti che si recano in quel paese attratti dalle più soddisfacenti opportunità formative e occupazionali offerte.

     

    Il Sud è stato, dalla ripresa dei flussi dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’area maggiormente coinvolta nel movimento migratorio, come viene confermato dal fatto che il 58,5% degli iscritti all’AIRE sia di origine meridionale. La prima regione per numero di emigrati

    è la Sicilia (555.000). Non bisogna però dimenticare che i lombardi fuori dai confini nazionali sono 250.000 e che, secondo stime, è di origine lombarda un terzo degli imprenditori italiani all’estero.

     

    Le uniche province che hanno più di 100.000 emigrati sono Agrigento e Cosenza, che precedono Bari e Palermo (ciascuna con 90.000) e, quindi, Milano e Treviso (con circa 70.000).

    Tra i comuni Milano (38.000) supera Roma (33.000), che però precede Torino (29.000), Napoli (28.000) e Genova (22.000). I numeri non sono molto elevati ma comunque significativi. Se poi si

    scende al livello di piccoli comuni, non mancano casi eclatanti. Se sul piano nazionale ogni 100 italiani rimasti in patria ve ne sono 5 all’estero, nel piccolo comune di Briga Alta (Cuneo) gli emigrati (55) uguagliano i residenti e ad Acquaviva Platani (Agrigento) gli emigrati (2.335) sono più del doppio dei residenti (1.102). In termini assoluti, il comune non capoluogo che conta il maggior numero di emigrati è Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento (8.786 persone).

    È senz’altro fondato parlare di una collettività italiana allargata di 60 milioni e più di persone. Come si rileva da alcune precisazioni acquisite localmente, le persone di origine italiana sarebbero:

    • 800.000 in Australia a fronte di 108.472 cittadini iscritti all’AIRE

    • 1,3 milioni in Uruguay a fronte di 49.612 cittadini iscritti all’AIRE

    • 15 milioni in Argentina a fronte di 404.330 cittadini iscritti all’AIRE

    • 31 milioni in Brasile a fronte di 148.746 cittadini iscritti all’AIRE e, in particolare, a San Paolo la metà dei circa 15 milioni di abitanti avrebbe sangue italiano nelle vene

    • 15,7 milioni negli Stati Uniti (187.621 cittadini residenti secondo l’AIRE), ma questa non è più una stima, bensì la risultanza del censimento del 2000.

     

    Gli italiani all’estero:

    solo persone di successo?

    È sbagliato ritenere che l’emigrazione italiana sia sempre stata una storia di grande successo. Si emigrò per bisogno, bisogno dei singoli e del paese. Anche l’accordo italo-belga del 1946 “carbone in cambio di manodopera” attesta, significativamente, che si vivevano tempi di

    grande miseria. Molte volte i migranti italiani furono apostrofati con termini spregiativi, spesso legati alla loro origine meridionale e al loro basso grado di istruzione. Negli Stati Uniti, per scrollarsi di dosso l’atteggiamento di disprezzo dei locali, molti italiani americanizzarono i loro cognomi, magari sopprimendo semplicemente la vocale finale, e arrivarono anche a diventare

    protestanti. La stessa Direzione Generale di Statistica ricorda le difficili condizioni del passato in una definizione del 1914, dove i migranti vengono qualificati come quelli che viaggiano in 3a

    classe per oltrepassare lo stretto di Gibilterra e il Canale di Suez.

    Molte e diffuse furono le difficoltà incontrate in fase di accoglienza. I sardi, che andarono a lavorare nelle miniere del Belgio, vennero sistemati nei campi di concentramento in precedenza destinati ai prigionieri nazisti; anche in Germania molti italiani furono a lungo alloggiati in baracche. E non sono certo questi gli unici esempi.

     

    Gli italiani andarono a inserirsi nei settori lavorativi più umili: alla fine dell’Ottocento in Germania costruirono la ferrovia nella Foresta Nera; furono protagonisti del traforo del Sempione, inaugurato nel 1906 come il più lungo tratto ferroviario sotto montagna;

    affrontarono attività pericolose, come la costruzione della diga di Mattmark, che nel 1965 si trasformò in una grande tragedia. I lombardi che emigrarono tra l’‘800 e il ‘900 negli Stati Uniti

    e in Canada attraversarono l’Oceano per lavorare (e a volte morire) nelle miniere, spesso accompagnati dai figli: secondo una legge americana dell’epoca infatti ogni minatore poteva farsi aiutare, come assistente, da un minore di 8-12 anni. Nella miniera di carbone di Monongah (West Virginia) si verificò nel 1907 un crollo ancor più drammatico di quello di Marcinelle e furono almeno 361 le vittime, di cui 171 gli italiani.

     

    Altri andarono alla ricerca dell’oro in Canada e negli Stati Uniti, a volte trovandolo e a volte no. Altri ancora, vittime di soprusi sul lavoro, si dedicarono alla lotta e alla tutela dei loro compagni, finendo con l’essere schedati come sovversivi: questo avvenne, ad esempio, negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso.

     

    Molti degli italiani all’estero subirono anche dei rovesci di fortuna, come ricorda emblematicamente il caso del Sudafrica e ancor di più quello dell’America Latina, dove oggi la povertà è una realtà molto diffusa anche tra i nostri connazionali. In Romania, dove la nostra

    emigrazione tradizionale affonda le radici nel diciottesimo secolo, diversi protagonisti dei flussi del passato si trovano oggi in situazione di povertà e ciò contrasta con i vantaggi di cui godono

    i migranti al seguito delle imprese, protagonisti delle migrazioni più recenti. 

     

    I paesi esteri non sono più gli eldorado dei tempi in cui si partiva in cerca di fortuna.

    Colpisce, ripensando ai sogni che l’Argentina alimentò nel passato in tanti migranti italiani, che oggi vi siano persone costrette ad arrangiarsi, facendo la fila al Consolato italiano per conto di

    quelli che devono sbrigare le pratiche (i cosiddetti coleros) o dedicandosi, come i cartoneros, alla raccolta del cartone in cambio di pochi spiccioli (20-30 pesos). Del resto anche nella ricca Svizzera si è scoperto che un settimo della popolazione totale si colloca al di sotto del livello di povertà.

     

    Spesso poi gli italiani si sono distinti, se non per ricchezza, quanto meno per perspicuità: Salvador Allende, il futuro presidente del Cile, da studente era solito andare a parlare di politica con un anziano anarchico italiano, emigrato nel paese latino-americano, dove lavorava come calzolaio.

    È anche vero, però, che sono italiani o di origine italiana molte persone di successo che svolgono ruoli di grande prestigio nei diversi contesti di riferimento. Una delle espressioni più significative di riuscita sono i parlamentari di origine italiana eletti all’estero (359). Prevale il Brasile con 63 parlamentari, seguono l’Uruguay con 56 e l’Argentina con 39. Essi sono originari per il 48% dalle regioni del Nord, per il 35% dal Meridione e per l’11% dal Centro. A livello

    regionale il primato spetta al Piemonte, con 53 parlamentari (15,5% del totale), seguito dalla Campania e dalla Liguria. Ad essere eletti più facilmente sono i professori universitari e gli avvocati (ciascuna categoria un sesto del totale); non aiuta, invece, essere lavoratori dipendenti, militari, sportivi, assistenti sociali e artisti (1 su 100 eletti) e neppure essere sindacalisti (1 su 70).

     

    Per curiosità, tra le donne di successo ricordiamo Lisa Caputo Nowak, membro della marina militare statunitense e prima donna d’origine italiana ad essere andata nello spazio, e Sonia Maino, originaria di un paesino nel Veneto, diventata moglie di Rajiv Gandhi e attualmente importante dirigente del Partito democratico indiano.

     

    Oggi, in Argentina e in Brasile più di un quinto degli italiani residenti sono imprenditori e molti altri sono lavoratori autonomi e professionisti: nello Stato di Rio Grande do Sul, in Brasile, su 10.641 aziende, 4.512 sono intestate a imprenditori di origine italiana. In Uruguay un quarto delle aree agricole del paese appartiene agli italiani. Sempre in Brasile si riscontra una singolare coincidenza per la quale le aree di maggiore insediamento dei nostri connazionali (Sud e Sud-Est del paese) sono quelle a più alto sviluppo sociale ed economico e contribuiscono, da sole, ai tre quarti del prodotto interno lordo. Il Sud America è stato anche la culla del commercio

    italiano all’estero: nel 1883 è stata fondata la prima Camera di Commercio fuori dai confini nazionali a Montevideo, mentre la seconda è stata fondata l’anno successivo a Buenos Aires.

    Nello stato di New York più di un terzo della popolazione di origine italiana è costituita da manager e liberi professionisti e in tutti gli USA sono circa 25.000 i ristoranti italiani. Invece, in Germania, Svizzera e Belgio la realtà imprenditoriale è molto meno diffusa e circa i due terzi degli italiani residenti sono lavoratori dipendenti.

     

    I “pionieri” dell’emigrazione

    Secondo i dati AIRE relativi al complesso dei cittadini italiani residenti all’estero le persone in età avanzata prevalgono, seppure di misura, sui giovani: oltre la metà (54,2%) ha infatti un’età

    superiore ai 40 anni e di questi il 19,3% è costituito da ultrasessantacinquenni (quasi 600.000 persone). Questi “pionieri” dell’emigrazione sono prevalentemente concentrati nel continente

    americano e in Europa: il 34% di essi si trova in America Latina e ben il 44,5% nel continente europeo. Un riscontro di questa situazione è rintracciabile anche nella ripartizione delle pensioni italiane pagate all’estero nel 2005 (in totale 409.395): Unione Europea (33%), Nord America (27%) e America Latina (18%).

    Il 58,5% degli italiani residenti in Europa è iscritto negli elenchi dell’AIRE da più di 10 anni: un dato che attesta il maggior afflusso determinatosi nel Dopoguerra in questo continente.

     

    Come si è visto, le esperienze di vita e di lavoro di questi “pionieri”, in larga parte spinti da necessità di tipo economico, hanno seguito traiettorie varie e diversificate: storie di riuscita affiancate a quelle di insuccesso.

    In Venezuela, un paese al quale il Rapporto dedica un capitolo di approfondimento, risiedono oltre 70.000 italiani, molti dei quali collocati in una posizione sociale medio-alta, come testimonia la complessa questione dei sequestri di persona. Ma sono anche numerosi gli italiani, anziani in primo luogo, che vivono in situazioni di grave indigenza, spesso a causa della crisi economico-sociale degli ultimi anni. Di questi soltanto una parte ricorre con regolarità all’assistenza consolare, che peraltro dispone, qui come in tutta l’America Latina, di un budget ridotto. Particolarmente urgenti sono le esigenze di natura sanitaria, che in alcuni contesti si sommano, per gli anziani, alle difficoltà di integrazione socio-culturale e a una

    situazione economica non più florida.

     

    Nonostante questi problemi, non bisogna dimenticare che le prime generazioni di emigrati, non necessariamente in età da pensione, sono anche quelle che hanno creato e animato l’associazionismo, hanno avviato fiorenti attività economiche riscattandosi da situazioni di disagio e subalternità, hanno curato i rapporti con le autorità locali, hanno mantenuto saldi i legami con l’Italia e costituiscono, quindi, una preziosa risorsa nel mondo globalizzato di oggi.

    A promuovere e valorizzare lo spirito e il desiderio di partecipazione sono oltre 7.000 associazioni (tante ne ha censite il Ministero degli Affari Esteri nel 2000), che contano 2 milioni  200 mila soci. Circa la metà di queste opera in Europa: ad esempio a Basilea se ne contano più di 400 e a Stoccarda più di 300. Singolare è la situazione nella circoscrizione consolare di New York, dove le associazioni raggiungono ben mezzo milione di soci. Per evitare le dispersioni

    sono in atto, ormai da tempo, dei processi di aggregazione: si pensi, ad esempio, all’Associazione Italiani del Sud America che conta 350 aderenti e, per le grandi associazioni impegnate nel settore, alla Consulta Nazionale dell’Emigrazione.

     

    Le seconde, le terze e le quarte generazioni

    Per seconde, terze o anche quarte generazioni si intendono i figli, nati sul posto, e i discendenti degli italiani emigrati all’estero, giovani e meno giovani, che a volte conservano e altre volte no

    il loro status di cittadini italiani e per i quali si pone il senso d’appartenenza all’Italia. Il 28% del totale dei registrati all’AIRE lo è in qualità di “discendente di migrante nato all’estero”.

    Le origini italiane sono variamente percepite e vissute da questi figli dell’emigrazione, in continuità o meno rispetto alle loro aspettative e ai loro progetti di inserimento sul posto. Le radici italiane a volte vengono trascurate, a volte vissute solo nel privato-familiare, altre ancora testardamente recuperate e affermate attraverso lo studio della lingua e la riscoperta del mondo culturale italiano (arte, storia, cinema, teatro), e la rivalutazione dei prodotti tipici del made in

    Italy.

    In America Latina, inoltre, a seguito delle più o meno recenti crisi socio-economiche, sono sempre più numerosi i giovani d’origine italiana che tentano di emanciparsi dalle difficoltà dei loro paesi di residenza ripercorrendo a ritroso il viaggio dei padri, vale a dire, in primo luogo, richiedendo la cittadinanza italiana. Il recupero della loro appartenenza all’italianità si lega quindi, in primo luogo, alla concessione di un passaporto UE che permetta di avere accesso al

    mercato occupazionale italiano ed europeo e non sempre al desiderio di riappropriarsi delle proprie radici, come confermano i risultati di un sondaggio condotto dal CEMLA - Centro de Estudios Migratorios Latino-Americanos di Buenos Aires.

     

    Questa adesione utilitaristica degli oriundi all’italianità si rende evidente anche all’interno della vastissima rete associativa creata dai nostri connazionali all’estero. I giovani spesso sono poco interessati a un mondo associativo legato ad attività tradizionali, incentrate sul recupero e il mantenimento della memoria e delle tradizioni dei luoghi d’origine, dei quali chi è nato all’estero conosce ben poco. Maggiore interesse suscita, invece, la possibilità di partecipare a

    corsi di formazione professionale, di orientamento al mercato e di approfondimento dell’italiano commerciale.

    È difficile, oggi, individuare luoghi d’aggregazione capaci di raccogliere e rappresentare l’insieme degli italiani all’estero: i pionieri dell’emigrazione restano distinti dai loro figli e dai

    loro nipoti. Un compito, tutt’altro che trascurabile, della politica migratoria consiste nel riuscire a dare una risposta soddisfacente a queste nuove generazioni.

     

    I nuovi migranti

    I “nuovi migranti” sono sempre più i tecnici e altre persone qualificate assunti da Centri Ricerca, Università e imprese multinazionali o in trasferta all’estero al seguito delle loro aziende. Si tratta spesso anche di giovani muniti di elevati titoli di studio, che scelgono di far valere il proprio percorso formativo e professionale in paesi in grado di offrire loro migliori opportunità.

    Negli ultimi 5 anni (2001-2006) vi è stato un incremento dei laureati iscritti all’AIRE del 53,2%: erano 39.013 a dicembre 2001 e sono diventati 59.756 a maggio 2006. Emigrano annualmente 3.300 laureati, in maggioranza maschi: il numero di chi parte è pari, pressappoco, al totale degli studenti che si laureano annualmente all’Università di Roma “La Sapienza”, all’Università di Bologna e all’Università di Padova.

    Tra le destinazioni intercontinentali gli Stati Uniti sono di gran lunga la meta più importante, ma anche Londra è una delle destinazioni preferite dai giovani, attratti dal fascino di una città cosmopolita e dalle sue opportunità formative (principalmente in ambito linguistico) ed economico-professionali. Ma non si tratta degli unici sbocchi: in Svizzera, ad esempio, insegnano 267 professori universitari. I laureati residenti all’estero sono particolarmente concentrati anche in Argentina e in Brasile.

     

    Anche in questo caso si pone il problema del collegamento tra vecchi e nuovi migranti. Questi ultimi, dalle aspettative ben diverse, molto spesso restano sostanzialmente estranei alla rete associativa tradizionale e si raccolgono piuttosto in circoli legati ai loro interessi economici e commerciali. Per loro l’emigrazione rappresenta un’opportunità in primo luogo professionale per emanciparsi dalle difficoltà incontrate nel mercato del lavoro italiano. Le ragioni della

    possibile emigrazione di oggi sono ben diverse da quelle del passato. Lo attestano anche i risultati di una recente indagine dell’EURISPES (Un italiano su tre andrebbe a vivere all’estero, 2006),

    secondo i quali, a spingere gli italiani all’emigrazione sarebbero, in primo luogo, le maggiori opportunità lavorative offerte da altri paesi (25,7%), seguite dalla curiosità (22%) e dalla vivacità culturale (14%).

     

    L’economia globalizzata

    e il ruolo degli italiani all’estero

    Nonostante il calo delle rimesse, gli italiani nel mondo possono costituire una preziosa risorsa per lo sviluppo del sistema economico-produttivo italiano che da diversi anni perde competitività, ma che può riprendersi anche grazie al loro attivo coinvolgimento. Si tratta di valorizzare e incentivare la collaborazione con la business  community sorta dall’esperienza migratoria italiana e sfruttarne il supporto in termini di informazioni e di appoggi.

     

    L’Italia è solo alla 56a posizione del World Competitiveness Yearbook. Gli investimenti diretti all’estero (IDE) sono, rispetto al prodotto interno lordo, il 64,8% in Gran Bretagna, il 38,1% in

    Francia, il 33,5% in Spagna e solo il 16,7% in Italia. Non vanno meglio le cose nel settore della ricerca: nel periodo 1999-2004 le domande di brevetti provenienti dall’Italia presso l’European

    Patent Office hanno rappresentato solo il 3% del totale.

    Non si parte, però, dall’anno zero. Il commercio internazionale coinvolge mezzo milione di imprese italiane, secondo una stima di Assocamerestero, mentre secondo un’altra fonte (MAP 2005), sono 180.000 le aziende italiane che esportano all’estero, di cui 250 con più di 250 dipendenti. Prima regione esportatrice risulta essere la Lombardia (con una quota del 28,5%), seguita da Veneto e Emilia Romagna, e questo soprattutto nei settori della meccanica, della

    moda, ma poco nell’high tech. È assodato, inoltre, che le medie imprese italiane riescono a essere competitive quando si rivolgono a fasce medio-alte del mercato. Da indagini condotte di recente è risultato che in larga misura gli operatori economici stranieri considerano affidabili le imprese italiane, guardano all’Italia come culla del design e apprezzano il livello qualitativo dei suoi prodotti.

     

    L’Italia è inoltre il primo paese per numero di aziende e per capitali investiti nell’Est Europa. Solo in Romania vi sono circa 17.000 aziende che danno lavoro a 670.000 persone. In Cina, invece, le aziende italiane sono solo 1.428, più le 300 di Hong Kong, ma con buone prospettive di sviluppo dopo la recente missione governativa nel paese (settembre 2006).

    Un’estesa rete operativa, che attende solo di essere potenziata e meglio raccordata, è costituita dalle 72 Camere di Commercio Italiane nel mondo, dai 104 uffici dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE) e dai 155 uffici commerciali presso le 238 sedi diplomatico-consolari del Ministero degli Affari Esteri. La legge 56/2005 per l’internazionalizzazione delle imprese ha inoltre previsto l’istituzione dello Sportello Unico, quale strumento di raccordo di tutte le strutture competenti, e sono stati già realizzati 42

    sportelli pilota.

    Sono oltre 14.000 le imprese fondate all’estero da imprenditori di origine italiana con 3,3 milioni di addetti e un fatturato di 200 milioni di euro (CGIE 2005): a sua volta la CIIM  (Confederazione degli Imprenditori Italiani nel Mondo) ne ha schedate 10.000, delle quali il

    28,3% in Europa e in particolare in Albania, Germania, Francia e Regno Unito. Esse producono per le aziende italiane un indotto, in termini di commesse, pari a 191 miliardi di lire (UIC 2003).

    Ulteriori dati aiutano a rendersi maggiormente conto dell’impatto economico legato all’emigrazione. Sono 60.000 i ristoranti italiani nel mondo (di essi 35.000 in Europa) con un fatturato di 27 miliardi di euro e un miliardo di clienti. Gli italiani in Germania sono titolari di

    38.000 aziende, specialmente nel settore gastronomico: solo le gelaterie, riunite nell’UNITEIS, organizzazione affiliata alla Confartigianato tedesca, sono circa 2.500, in prevalenza gestite da

    italiani originari del Nord-Est. Le gelaterie sono una buona vetrina del made in Italy e comportano annualmente un indotto di circa 250 milioni di euro per approvvigionamento delle materie e 100 milioni di euro per investimenti in arredi e manutenzione. Questo fiorente

    mercato pone però problemi sul piano della continuità: purtroppo in Germania i due terzi dei ristoranti non appartengono più a italiani e anche nella Corea del Sud, dei 600 ristoranti italiani presenti, solo 8 sono gestiti da italiani. Poiché i figli dei gelatieri italiani nelle città tedesche non vogliono continuare l’attività dei padri, si è trovata una soluzione collegando diverse realtà migratorie, ovvero facendo arrivare in Germania un migliaio di giovani di origine italiana

    dall’Argentina e dal Brasile.

     

    L’idea di fondo, ribadita con forza anche nel corso della II Conferenza Stato-Regioni- Province Autonome-CGIE (2005), è quindi quella di utilizzare gli imprenditori italiani all’estero come “consulenti” del “sistema Italia”, e questo nella piena consapevolezza dell’opera di

    valorizzazione del made in Italy di cui si sono fatti promotori tramite le loro iniziative imprenditoriali; in particolare gli emigrati italiani “di successo” possono infatti esercitare “una sorta di attività di lobby”.

     

    In quest’ottica si muovono oggi soprattutto le Regioni, che, tramite le Consulte per l’emigrazione, approvano progetti e stanziano fondi per l’internazionalizzazione nei paesi di maggiore presenza di corregionali, spesso puntando sulla promozione di specifiche produzioni merceologiche, per cui l’incremento delle relazioni con le collettività dei corregionali diventa una leva per lo sviluppo locale. A riguardo, si possono citare ITENETS (International Training and

    Employment Networks) e PPTIE (Programma di Partenariato Territoriale con gli Italiani all’Estero),finalizzati a guidare le regioni del Mezzogiorno nel processo di internazionalizzazione.

     

    Per un nuovo legame culturale

    a livello transnazionale

    L’italiano nel mondo non è una lingua sconosciuta, come lascia intendere l’ampia e diffusa presenza di connazionali e di oriundi. La Svizzera è l’unico paese estero in cui l’italiano è lingua nazionale, anche se la percentuale di coloro che lo parlano è in diminuzione. In Australia la nostra lingua è la più parlata dopo l’inglese. In Argentina gli studenti di italiano sono circa 93.000, ripartiti in più di 5.000 corsi con 1.359 insegnanti. Negli Stati Uniti sono 60.000 i ragazzi

    che studiano l’italiano e, da settembre 2005, l’italiano è entrato nell’Advanced Placement Program (APP), ingresso che consentirà il suo insegnamento in più di 500 scuole secondarie degli Stati

    Uniti, come già avviene per le lingue spagnola e francese. Nel mese di maggio 2006, inoltre, 20 parlamentari dell’Uruguay hanno deciso di seguire un corso di italiano.

    Non sono poche le iniziative condotte per soddisfare le necessità tanto degli italiani che degli amanti dell’italiano. Sono stati 6.519 i corsi di italiano organizzati nel 2004 dagli Istituti Italiani di Cultura, oltre 5.000 quelli organizzati nello stesso anno dalla Società Dante Alighieri, 16.517 i corsi tenuti nelle scuole pubbliche (a.s. 2003/ 2004), cui si aggiungono ulteriori 13.181 corsi realizzati, al pari dei precedenti, grazie ai contributi erogati dal MAE, per un totale di quasi 600.000 studenti.

    Questi dati aiutano a inquadrare la situazione attuale e a omprendere l’esigenza di porre in essere progetti incisivi di promozione e valorizzazione della lingua italiana.

    Bisogna evitare, in primo luogo, che le nuove generazioni dimentichino la lingua dei loro genitori. Nella vicina Svizzera, ad esempio, solo un terzo dei ragazzi tra i 6 e i 15 anni frequenta

    corsi di italiano e raggiunge un livello intermedio di conoscenza, mentre un crescente numero di anziani non parla più correntemente la lingua madre e ciò è di pregiudizio anche ai vari livelli di partecipazione.

    Le iniziative culturali sono anche, come accennato, un veicolo di valorizzazione dell’immagine dell’Italia e del made in Italy. Esistono importanti settori che “parlano italiano”, si pensi al teatro lirico, al restauro, alla moda. Promuovere il patrimonio culturale italiano

    significa, di riflesso, promuovere anche le peculiarità industriali, artigianali, agroalimentari del nostro paese. La cultura ha infatti importanti ricadute sul piano delle relazioni internazionali,

    del turismo (il viaggio in Italia è un “sogno classico”) e del marketing, e nel processo di internazionalizzazione questi diversi aspetti sono tra di loro strettamente collegati. La lingua e

    la cultura italiana diventano, così, una sorta di “anticipatore d’incontro” con il nostro paese, con positive ricadute innanzitutto sul turismo.

    Se si valutano con attenzione questi fattori, l’obiettivo di potenziare la qualità e la quantità delle iniziative di promozione linguistico-culturale si impone per ragioni di coerenza, perché già attualmente le richiesta supera di gran lunga l’offerta e urgono ulteriori “prodotti” da offrire a un pubblico sempre più colto e moderno.

     

    Cittadinanza, partecipazione,

    tutela sociale e associazionismo

    È crescente l’interesse all’acquisizione o alla riacquisizione della cittadinanza italiana: al Consolato di Buenos Aires sono pendenti 40.000 richieste e in Venezuela si fissano oggi appuntamenti per il 2010; analoghe difficoltà si riscontrano in Uruguay, Brasile e, in particolare, in altri paesi dell’America Latina. Anche i dati relativi agli altri paesi dell’area attestano un’attenzione sempre più diretta a questo legame giuridico con l’Italia, dettata congiuntamente

    sia da motivi ideali che da interessi concreti: abbiamo visto che i giovani dell’America Latina si assicurano così l’ingresso nell’Unione Europea. Ne conseguono interminabili liste d’attesa e una

    mole di lavoro che i consolati non sembrano in grado di smaltire in tempi realistici, anche perché il personale a disposizione è al di sotto degli organici.

    Nell’AIRE quasi la metà degli iscritti per acquisizione della cittadinanza italiana (42,6%, ovvero 34.471 persone) si sono registrati nel corso degli ultimi 5 anni, secondo la seguente

    ripartizione: quasi la metà nel continente americano (48,9%, di cui il 35,5% nell’America Latina) e l’altra metà in Europa (44,6%). Si tratta in maggioranza di donne (57,8%) e, in quasi tre quarti dei casi (circa 60.000), di ultraquarantenni.

     

    L’auspicata riforma della legge 91/1992 dovrebbe riaprire i termini per il riacquisto automatico della cittadinanza italiana da parte di chi l’ha perduta in seguito alla migrazione (termini chiusi il 31 dicembre 1997) estendendo questa possibilità anche ai figli maggiorenni e

    dovrebbe riconoscere la cittadinanza alle donne italiane coniugate con un cittadino straniero anteriormente al 1 gennaio 1948 e ai loro figli nati precedentemente alla stessa data.

    Grave in tutta l’America Latina, ma anche nel Nord del continente americano e in diversi altri paesi di emigrazione, è la situazione reddituale e sociale e il problema della salute dei nostri connazionali, diventati anziani e sprovvisti di assistenza sanitaria e di risorse, tanto che, dall’Italia, sono stati avviati diversi progetti di  collaborazione con ospedali locali e i Consolati, per salvaguardare l’efficacia e l’aspetto economico, stipulano accordi con diverse strutture sanitarie, spesso costituite in origine dagli stessi emigrati.

    Le somme destinate all’assistenza degli italiani all’estero sono molto ridotte e, comunque, inferiori alle entrate registrate per i diritti consolari, e ciò costituisce un problema notevole a fronte di una richiesta che diventerà sempre più pressante. Per questo è stata riproposta in Parlamento l’istituzione di un assegno di solidarietà che, con uno stanziamento tutto sommato contenuto e sottoposto a limiti di reddito, consentirebbe una concreta presa in carico di questa

    situazione.

     

    L’inadeguatezza della copertura si ripropone anche sul versante previdenziale, perché non tutti hanno maturato il diritto alla pensione oppure molti riscuotono una pensione insufficiente

    al loro sostentamento. Le 756.000 pensioni maturate in regime internazionale, per buona parte pagate all’estero (352.000), mentre 404.000 sono i beneficiari tornati in Italia. All’estero vengono

    pagate anche altre 58.000 pensioni maturate in base ai soli contributi previdenziali italiani. In pratica 1 ogni 8 italiani residenti all’estero è pensionato. L’importo medio annuo di queste

    pensioni è di 3.000 euro per beneficiario, 254 euro al mese (circa la metà della pensione minima). All’inizio degli anni ’90 l’importo medio annuo era di 4.000 euro, ma poi i cordoni della borsa sono stati chiusi e dal 1992 nei paesi dell’Ue non può essere più esportata

    l’integrazione al minimo, come anche la base di calcolo della pensione (pensione virtuale) non può avvalersi più di tale integrazione.

     

    Come risaputo, le pratiche di natura legale, previdenziale o di altro tipo, risultano estremamente complicate per gli emigrati. Per la tutela di queste prassi si adoperano gli istituti di patronato, ormai presenti in 24 paesi, con grande capacità di intervento e notevole

    preparazione professionale: in occasione della campagna “Red Est”, lanciata dall’INPS nel 2003 per accertare la sussistenza del diritto alla pensione, i patronati si sono occupati di 190.000 dei 200.000 formulari ritornati all’Inps.

     

    Molto sentito è, poi, il tema della partecipazione che coinvolge a diversi livelli i COMITES, dalle consultazioni referendarie a quelle politiche in Italia. Strettamente funzionale alla partecipazione è l’utilizzo della stampa, unitamente agli altri mezzi di informazione, così come assolutamente fondamentale è l’associazionismo, il più efficace collante in grado di evitare che la presenza all’estero diventi una realtà atomizzata.

    Oggi, questa realtà ha trovato nuovo impulso a seguito del protagonismo delle regioni.

    La stampa italiana all’estero è una rete che comprende 400 testate tra periodici cartacei,

    agenzie e notiziari online: 56 sono le testate edite in Italia (44 periodici e 12 agenzie e notiziari online). Le agenzie di informazione trattano per il 50% informazione di ritorno, mentre la

    percentuale di riferimento è più ridotta nei periodici (30%). Le provvidenze per la stampa italiana all’estero sono regolate dalla legge 416/1981, che eroga 2 milioni di euro l’anno per

    sostenere 160 testate.

     

    La partecipazione politica è stata sancita con la legge del 2001 ed esercitata, per la prima volta, alle votazioni di aprile 2006, che hanno portato all’elezione di 18 parlamentari della Circoscrizione Estero (12 deputati e 6 senatori), una componente molto importante negli

    equilibri parlamentari.

    In questa prima consultazione politica è stata elevata la percentuale dei votanti, nonostante si siano verificati diversi inconvenienti sul piano logistico-amministrativo. Su 2.700.000 plichi elettorali spediti ad altrettanti aventi diritto, ne sono stati riconsegnati 1.135.617 (42%), mentre 247 mila sono stati restituiti ai Consolati in larga maggioranza per errore di indirizzo o irreperibilità del destinatario e circa il 2,3% del totale è stato restituito oltre il termine consentito.

     

    Si può ritenere che con questa nuova esperienza sia stata intrapresa una via di non ritorno, destinata a legare più strettamente italiani in Italia ed emigrati italiani all’estero.

    (DAL RAPPORTO MIGRANTES - marzo 2007)

     

    IL RAPPORTO MIGRANTES DEL 2009

    La quarta edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. La ricerca, un articolato volume di 512 pagine realizzato con il contributo di 46 redattori, è suddiviso in cinque parti per un totale di 43 capitoli.

    Nella prima sezione del libro vengono analizzati i “Flussi e le presenze tra storia e attualità. La seconda parte è dedicata agli “Aspetti socio – culturali e religiosi”, mentre la terza sezione affronta le “Questioni sociali ed economiche”. Nelle ultime due parti della ricerca troviamo gli approfondimenti tematici e gli allegati socio- statistici.
    Dal Rapporto 2009 emerge come il numero degli italiani residenti all’estero, 3.915.767, sia all’incirca pari a quello dei cittadini stranieri residenti in Italia (3.891.295). Un equilibrio numerico che nei prossimi anni sarà superato per la crescita esponenziale degli immigrati presenti nel nostro paese.

    La comunità degli italiani all’estero, una realtà in continua evoluzione e non in diminuzione, è caratterizzata da una cospicua presenza delle donne, che rappresentano il 47,6% del totale, e da una dislocazione continentale delle collettività che premia l’Europa (55,8%), l’America (38,8%), l’Oceania (3,2%), l’Africa (1,3%) e l’Asia (0,8%).

    In questo contesto i primi tre paesi di residenza sono la Germania, l’Argentina e la Svizzera che vengono seguiti a distanza, da Francia, Brasile, Belgio, Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia. Per quanto riguarda invece le aree di provenienza dei nostri emigrati il rapporto precisa come il 54,8% degli italiani all’estero sia di origine meridionale,il 30,1% provenga da regioni settentrionali e il 15% (588.717) sia originario delle regioni centrali.

    Dal Rapporto, che analizza con specifici capitoli le dinamiche e gli aspetti della nostra emigrazione in Liguria, Piemonte e Sardegna, vengono inoltre approfondite alcune particolarità storiche della nostra diaspora, come ad esempio i flussi migratori verso l’Egitto e la Tunisia o il contributo italiano alla colonizzazione del Cile che portò a fondare nel 1905 la città Capitan Pastene. Per quanto concerne invece l’attualità l’indagine evidenzia come ai giorni nostri circa 40.000 italiani all’anno, spesso con importanti titoli di studio, continuino ad emigrare. Una diaspora, quella odierna, che spesso è al seguito delle attività portate avanti dalle nostre aziende all’estero.

    Secondo un’indagine dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili le imprese italiane sarebbero infatti presenti nel mondo con 109 cantieri, per un fatturato complessivo che nel 2007 ha toccato quota 5,5 miliardi di euro. Un’altra faccia della moderna emigrazione è senza dubbio quella degli universitari italiani iscritti all’estero che sono presenti in Germania (7.457 studenti), Austria e Gran Bretagna (6.000), Francia e Svizzera (4.000), Stati Uniti e Spagna (3.000) e Belgio (1.500).

     I ricercatori del Rapporto hanno inoltre valutato una quota annua di connazionali rientrati in Italia superiore alle 50.000 unità. Da ulteriori indagini è emerso come nel triennio 2006-2008 259.000 connazionali rientrati dall’estero fossero lavoratori dipendenti, almeno 60.000 lavorassero come imprenditori e all’incirca in 180.000 riscuotessero una pensione. .
    Sull’odierna realtà migratoria, nel 2003 erano 2.250.000 gli italiani nati al di fuori del territorio nazionale i relatori del Rapporto Migrantes, insieme ai patronati e alle associazioni all’estero, hanno inoltre promosso un’indagine in Europa e Nord America volta a rilevare le condizioni di vita dei nostri connazionali.

    Dalla ricerca è emerso come in queste due realtà continentali i nostri connazionali abbiano raggiunto un livello lavorativo e di vita abbastanza soddisfacente, leggano la stampa italiana, non inviino più le rimesse alle famiglie d’origine e tornino per le vacanze in Italia. Per quanto concerne la diffusione della lingua e della cultura italiana il Rapporto precisa come, secondo l’indagine “Italiano 2000”, la lingua prevalente tra i connazionali all’estero sia quella del paese ospitante (73,6%). In buona posizione si piazzano però anche l’italiano (50,5%) e i singoli dialetti di appartenenza (58,2%).

    Da segnalare la presenza nel Rapporto di un’intervista a Renzo Arbore che ha portato presso le nostre comunità nel mondo la musica italiana ed ha arricchito con i suoi pezzi la colonna sonora del video sul Rapporto Migrantes 2009 realizzato da TV 2000.

    *  *  *

    L’avvento del fascismo impose una ferrea censura e non permise, quindi, agli autori di descrivere situazioni che potessero danneggiare l’immagine dell’Italia dell’epoca. Infatti tutti coloro che erano emigrati per cercar fortuna all’estero non erano più “emigranti” ma “italiani nel mondo”. Una successiva campagna venne messa in atto affinché questi facessero ritorno in patria. Era il periodo in cui tutto veniva celato e censurato e le notizie che arrivavano dall’Italia, per gli emigrati, erano molto scarse e frammentate. Molto spesso artefatte e poco veritiere per cui in America, gli italiani ed in particolare i napoletani, nostalgici e desiderosi di notizie, ascoltavano ed immaginavano, attraverso le canzoni, episodi di vita quotidiana. In quel periodo si trasferì in America anche una famosa cantante “Gilda Mignonette che, con la sua voce vellutata, allietava la moltitudine di italiani costretti a vivere “p’è terre assàio luntane. Venne soprannominata la “Regina delle Cantanti”. 

     



     
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