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30 nov 2007Il testo completo della LETTERA ENCICLICA "SPE SALVI" DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI AI VESCOVI

CITTA' DEL VATICANO, 30 NOV.(Italia Estera) - Questo il testo completo della LETTERA ENCICLICA SPE SALVI DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI AI VESCOVI:
Introduzione
1. « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche
a noi (Rm 8,24). La « redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di
fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile,
in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente
faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi
possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si
impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare
l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E
di quale tipo di certezza si tratta?
La fede è speranza
2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare
ancora un po' più attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. « Speranza », di fatto, è
una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole « fede » e « speranza »
sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede »
(10,22) la « immutabile professione della speranza » (10,23). Anche quando la Prima Lettera di
Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la
ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede ». Quanto sia stato
determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza
affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima
della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima
del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ef 2,12).
Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro
dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza.
Nonostante gli dèi, essi erano « senza Dio » e conseguentemente si trovavano in un mondo buio,
davanti a un futuro oscuro. « In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla dal nulla quanto
presto ricadiamo) 1 dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini
ciò a cui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete « affliggervi
come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo
dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende,
ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come
realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era
soltanto una « buona notizia » – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel
nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo « informativo », ma « performativo
». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è
una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata
spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.
3. Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è «
redenzione »? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini citato
poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano « senza Dio
nel mondo ». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi
che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso
della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.
L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi
incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita,
canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data
precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a
sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio
della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in
conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un
mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti,
tornò in Italia. Qui, dopo « padroni » così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà,
Bakhita venne a conoscere un « padrone » totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora
aveva imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva
conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la
consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un « paron » al di sopra di tutti i
padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a
sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava.
Anche lei era amata, e proprio dal « Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono
essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone
aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio
Padre ». Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno
crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono
attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei
era « redenta », non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva
quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza
speranza perché senza Dio. Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era
disposta a farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e
ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a
Verona, pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi
lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di
sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù
Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero
possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva « redenta », non poteva tenerla per
sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva
4. Prima di affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo
Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo « informativo », ma anche «
performativo », vale a dire se possa trasformare la nostra vita così da farci sentire redenti mediante
la speranza che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile rendersi conto
che l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l'esperienza di molte persone
picchiate e condannate alla schiavitù nell'epoca del cristianesimo nascente. Il cristianesimo non
aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente,
aveva fallito. Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica, come
Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di
totalmente diverso: l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e così
l'incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo
trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto appare con massima
evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo
scrive nel carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone – appunto Filemone.
Sì, Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando:
« Ti supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore [...]
Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più
però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo » (Fm 10-16). Gli uomini
che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri
dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle – così i cristiani si chiamavano a vicenda.
In virtù del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano
insieme, uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le
stesse, questo cambiava la società dal di dentro. Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù
non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tutt'altro
che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai
cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si
trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata.
5. Dobbiamo aggiungere ancora un altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1,18-31) ci
mostra che una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e, proprio per
questo, era disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata nell'esempio
di Bakhita. Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poiché
proprio anche loro vivevano « senza speranza e senza Dio nel mondo ». Il mito aveva perso la sua
credibilità; la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che veniva
eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una « religione politica ». Il
razionalismo filosofico aveva confinato gli dèi nel campo dell'irreale. Il Divino veniva visto in vari
modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra la
problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando
contrappone alla vita « secondo Cristo » una vita sotto la signoria degli « elementi del cosmo » (Col
2,8). In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno può essere illuminante. Egli dice
che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine
dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo.2 Di fatto, in
questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è nuovamente in
auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva
governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi
della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se
conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi
materiali non è più l'ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora
siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il
cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma
in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in
Gesù si è rivelato come Amore.3
6. I sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa concezione – al cospetto
della morte, di fronte alla quale la questione circa il significato della vita si rende inevitabile. La
figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella
del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si intendeva una difficile
disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva
insegnare l'arte essenziale: l'arte di essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di morire.
Certamente gli uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in
giro come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si
procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava il vero
filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo
per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro,
la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e nell'altra il bastone da
viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la
verità che i filosofi peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo
periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciò che le persone colte come le
semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere
veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra,
e perciò è anche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte;
solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita. La stessa cosa si rende visibile
nell'immagine del pastore. Come nella rappresentazione del filosofo, anche per la figura del pastore
la Chiesa primitiva poteva riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. Lì il pastore era in
genere espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella confusione della
grande città aveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta all'interno di uno scenario nuovo che le
conferiva un contenuto più profondo: « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla ... Se dovessi
camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me ... » (Sal 23 [22], 1.4).
Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche
sulla strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me
guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte,
l'ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un
passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi accompagna e
con il suo « bastone e il suo vincastro mi dà sicurezza », cosicché « non devo temere alcun male »
(cfr Sal 23 [22],4) – era questa la nuova « speranza » che sorgeva sopra la vita dei credenti.
7. Dobbiamo ancora una volta tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera
agli Ebrei (v.1) si trova una sorta di definizione della fede che intreccia strettamente questa virtù
con la speranza. Intorno alla parola centrale di questa frase si è creata fin dalla Riforma una disputa
tra gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione comune. Per il
momento lascio questa parola centrale non tradotta. La frase dunque suona così: « La fede è
hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono ». Per i Padri e per i teologi
del Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in latino con il termine
substantia. La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa antica, dice quindi: « Est autem fides
sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium » – la fede è la « sostanza » delle
cose che si sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino,4 utilizzando la
terminologia della tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo così: la fede è un «
habitus », cioè una costante disposizione dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e
la ragione è portata a consentire a ciò che essa non vede. Il concetto di « sostanza » è quindi
modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire « in germe » – quindi secondo
la « sostanza » – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio
perché la cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa «
cosa » che deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non « appare »), ma a causa del
fatto che, come realtà iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche
percezione di essa. A Lutero, al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica, il
concetto di « sostanza », nel contesto della sua visione della fede, non diceva niente. Per questo
intese il termine ipostasi/sostanza non nel senso oggettivo (di realtà presente in noi), ma in quello
soggettivo, come espressione di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette naturalmente
comprendere anche il termine argumentum come una disposizione del soggetto. Questa
interpretazione nel XX secolo si è affermata – almeno in Germania – anche nell'esegesi cattolica,
cosicché la traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi,
dice: « Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, Überzeugtsein von dem, was man nicht
sieht » (fede è: stare saldi in ciò che si spera, essere convinti di ciò che non si vede). Questo in se
stesso non è erroneo; non è però il senso del testo, perché il termine greco usato (elenchos) non ha il
valore soggettivo di « convinzione », ma quello oggettivo di « prova ». Giustamente pertanto la
recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: « Ora però non può più essere
messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile ».5 La fede
non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente
assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente
costituisce per noi una « prova » delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente
il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro « non-ancora ». Il fatto che questo futuro esista,
cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in
quelle presenti e le presenti in quelle future.
8. Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita concreta, se consideriamo
il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e
contenutistico, è collegato con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui
l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza della persecuzione e dice loro: « Avete preso
parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze
(hyparchonton – Vg: bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin – Vg: substantiam) e
più duraturi ». Hyparchonta sono le proprietà, ciò che nella vita terrena costituisce il sostentamento,
appunto la base, la « sostanza » per la vita sulla quale si conta. Questa « sostanza », la normale
sicurezza per la vita, è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno sopportato,
perché comunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla, perché
avevano trovato una « base » migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che nessuno
può togliere. Non si può non vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di «
sostanza », tra sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come « base », come «
sostanza » che permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul
quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale,
appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo
apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò
certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova « sostanza » che ci è stata
donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere
dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si
è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco
d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di
Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone
sofferenti nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente come «
sostanza », dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che
vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente «
sostanza » ed è una « sostanza » che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure,
questo loro agire e vivere è di fatto una « prova » che le cose future, la promessa di Cristo non è
soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che
ci indica che cosa è e dove sta la vita.
9. Per comprendere più nel profondo questa riflessione sulle due specie di sostanze – hypostasis e
hyparchonta – e sui due modi di vita espressi con esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su
due parole attinenti l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei. Si
tratta delle parole hypomone (10,36) e hypostole (10,39). Hypomone si traduce normalmente con «
pazienza » – perseveranza, costanza. Questo saper aspettare sopportando pazientemente le prove è
necessario al credente per poter « ottenere le cose promesse » (cfr 10,36). Nella religiosità
dell'antico giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di Dio caratteristica di
Israele: per questo perseverare nella fedeltà a Dio, sulla base della certezza dell'Alleanza, in un
mondo che contraddice Dio. Così la parola indica una speranza vissuta, una vita basata sulla
certezza della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di Dio
assume un nuovo significato: in Cristo Dio si è mostrato. Ci ha ormai comunicato la « sostanza »
delle cose future, e così l'attesa di Dio ottiene una nuova certezza. È attesa delle cose future a partire
da un presente già donato. È attesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del
suo Corpo, in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole invece è espresso il sottrarsi di chi
non osa dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa. Questo nascondersi davanti
agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (Eb 10,39). « Dio
non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » – così invece la
Seconda Lettera a Timoteo (1,7) caratterizza con una bella espressione l'atteggiamento di fondo del
cristiano.
La vita eterna – che cos'è?
10. Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi del
cristianesimo; è stato però anche sempre evidente che non discorriamo solo del passato; l'intera
riflessione interessa il vivere e morire dell'uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora.
Tuttavia dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una
speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi « performativa » – un messaggio
che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto « informazione » che, nel frattempo,
abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una
risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva
l'accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote
chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la
domanda: « Che cosa chiedi alla Chiesa? » Risposta: « La fede ». « E che cosa ti dona la fede? » «
La vita eterna ». Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla fede, la
comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per « la vita eterna ». Di fatto, oggi
come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di
socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si
aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa
e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora
sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone
rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non
vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo
scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna
che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza
un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È
precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per
il fratello defunto Satiro: « È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di
natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della
trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto
insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita
aveva perduto. L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia ».6
Già prima Ambrogio aveva detto: « Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di salvezza... ».7
11. Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che
l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanità in
una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente
c'è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della
nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che
moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e
anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente?
Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in
realtà, la « vita »? E che cosa significa veramente « eternità »? Ci sono dei momenti in cui
percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la « vita » vera – così essa dovrebbe
essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo « vita », in verità non lo è. Agostino,
nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di
tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – « la vita beata », la vita che è
semplicemente vita, semplicemente « felicità ». Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella
preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice
anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo
propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di
toccarla non la raggiungiamo veramente. « Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare »,
egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo.
Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. « C'è dunque in noi una, per così
dire, dotta ignoranza » (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo
veramente; non conosciamo questa « vera vita »; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa
che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti.8
12. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale
dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze.
Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla
morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare
di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o
realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il
suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci
positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di
dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che
crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; «
vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è
spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo,
per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità
della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo
susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la
totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano
dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto
cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella
vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel
Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere
la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira
la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.9
La speranza cristiana è individualistica?
13. Nel corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere che non sa in
figure rappresentabili, sviluppando immagini del « cielo » che restano sempre lontane da ciò che,
appunto, conosciamo solo negativamente, mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di
raffigurazione della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere in base
alla fede e di abbandonare per questo anche i loro « hyparchonta », le sostanze materiali per la loro
esistenza. L'autore della Lettera agli Ebrei, nell'undicesimo capitolo ha tracciato una specie di storia
di coloro che vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele giunge
fino all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si è accesa nel tempo moderno una critica sempre più
dura: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si
sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata. Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua
opera fondamentale « Catholicisme. Aspects sociaux du dogme », ha raccolto alcune voci
caratteristiche di questo genere di cui una merita di essere citata: « Ho trovato la gioia? No ... Ho
trovato la mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa ... La gioia di Gesù può essere
individuale. Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva. È nella pace..., per ora e per
sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei è, appunto, l'eletta!
Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano ».10
14. Rispetto a ciò, de Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto
mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria. La stessa Lettera
agli Ebrei parla di una « città » (cfr 11,10.16; 12,22; 13,14) e quindi di una salvezza comunitaria.
Coerentemente, il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unità del genere umano,
come frazionamento e divisione. Babele, il luogo della confusione delle lingue e della separazione,
si rivela come espressione di ciò che in radice è il peccato. E così la « redenzione » appare proprio
come il ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione che si delinea
nella comunità mondiale dei credenti. Non è necessario che ci occupiamo qui di tutti i testi, in cui
appare il carattere comunitario della speranza. Rimaniamo con la Lettera a Proba in cui Agostino
tenta di illustrare un po' questa sconosciuta conosciuta realtà di cui siamo alla ricerca. Lo spunto da
cui parte è semplicemente l'espressione « vita beata [felice] ». Poi cita il Salmo 144 [143],15: «
Beato il popolo il cui Dio è il Signore ». E continua: « Per poter appartenere a questo popolo e
giungere [...] alla vita perenne con Dio, “il fine del precetto è l'amore che viene da un cuore puro, da
una coscienza buona e da una fede sincera” (1 Tim 1,5) ».11 Questa vita vera, verso la quale sempre
cerchiamo di protenderci, è legata all'essere nell'unione esistenziale con un « popolo » e può
realizzarsi per ogni singolo solo all'interno di questo « noi ». Essa presuppone, appunto, l'esodo
dalla prigionia del proprio « io », perché solo nell'apertura di questo soggetto universale si apre
anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso – su Dio.
15. Questa visione della « vita beata » orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là
del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo – in forme

 
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