BRUXELLES -(Italia Estera) - Marcinelle è da sempre il simbolo del lavoro e del sacrificio. Quello italiano e non. È anche il simbolo di un’alienazione che diventa aspirazione, lotta, rivendicazione, crescita e integrazione. È simbolo del percorso umano, singolo e collettivo, dei migranti, quelli che partivano ieri dall’Italia come quelli che arrivano oggi nel nostro Paese. Uomini e donne che fuggono da una realtà avara per trovare, attraverso il sacrificio di un lavoro, spesso il più duro e malpagato, un riscatto e la possibilità di un futuro migliore. Gente pronta a subire ogni sofferenza, a ogni sfruttamento, pur di alimentare una speranza che in patria gli è stata negata.
Di questa gente, lo sappiamo bene, dall’Italia ne è partita moltissima, anche per Marcinelle. Alcuni hanno trovato lì il riscatto – il proprio o quello dei figli – altri sono riusciti appena a tirare avanti, altri ancora sono andati incontro a braccia aperte alla malattia e alla morte.
Ma se tutto questo lo sappiamo bene, lo diciamo ogni anno – soprattutto nell’occasione dell’anniversario della tragedia di Marcinelle – forse non altrettanto bene conosciamo e ricordiamo il vissuto quotidiano dei lavoratori emigrati dall’Italia in quei luoghi del Nord Europa e la loro straordinaria capacità di fare sistema. Quei lavoratori, infatti, seppero essere, forse meglio di quanto non accadesse in Italia, “comunità”, con tutto ciò che questo termine implica.
I nostri connazionali, infatti, nonostante le durissime condizioni di vita a cui erano sottoposti, nonostante i turni massacranti, i salari bassi, la scarsa assistenza, le precarie condizioni contrattuali e la lontananza dal Paese d’origine e spesso dalla famiglia – o forse proprio a causa di tutto questo – avevano saputo creare un sistema umano e solidaristico esemplare per quei tempi. Una vera e propria rete di protezione e tutela contro le angherie delle società minerarie e a supplenza della colpevole latitanza dello Stato (d’origine e di accoglienza). Gli italiani furono in grado di creare un piccolo sistema sociale, una sorta di “welfare privato” basato sul sostegno reciproco e collettivo.
Un sistema ben descritto da Aurélie Filippetti – figlia e nipote di minatori italiani emigrati nella Lorena e oggi professoressa di latino e greco in un liceo parigino – nel libro Les derniers jours de la classe ouvrière. Uno straordinario lavoro che ha molto da insegnare a chi ha la responsabilità di legiferare sulle questioni del lavoro e delle migrazioni, nel contesto dei diritti di cittadinanza e dell’integrazione nell’Europa unita, e a chi affronta oggi l’enorme sfida della riforma del welfare.
Gianni Pittella, Responsabile nazionale DS per gli Italiani nel Mondo