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13 ott 2002I Lavori della Commissione Continentale DEL CGIE per l’Europa e l’Africa del Nor

Nel corso dei Lavori della Commissione Continentale DEL CGIE per l’Europa e l’Africa del Nord (La Chaux-de-Fonds / Neuchatel, 3-5 ottobre 2002 ci sono stati gli interventi del Vice Segretario Generale del CGIE Gianni Farina e del Segretario Generale del CGIE Franco Narducci

INTERVENTO DEL VICE SEGRETARIO GENERALE GIANNI FARINA>/B>
Un ringraziamento caloroso alla delegazione svizzera per l’impegno con cui ha preparato questi lavori facendovi intervenire, perché dessero il loro importante contributo, esperti in alcuni rami delle attività dei connazionali all’estero. A loro, alle Autorità presenti, agli invitati, agli ospiti, ai membri del Consiglio Generale, ai rappresentati dell’Amministrazione dello Stato, alle Autorità consolari intervenuti per assistere ai nostri lavori porgo il saluto di questa Commissione e mio personale.
Mi siano preliminarmente consentite alcune considerazioni sul Paese che ci ospita, la Svizzera, e di riflettere su uno strano scherzo della storia. Questo Paese ha vissuto nei secoli un travagliato processo, quadratino dopo quadratino, di costruzione della propria identità nazionale sino a giungere alla moderna Confederazione Elvetica, le cui solide fondamenta sono cementate dai valori della solidarietà, della pari dignità, dell’eguaglianza tra genti che pure erano di provenienza e culture diverse, e su tali basi ha costruito il suo sviluppo ed il progresso per i suoi cittadini. Ciò nonostante la Nazione più europea – tale io ritengo la Svizzera – oltretutto terra d’approdo, d’asilo per tanti nostri combattenti della libertà nel periodo buio del totalitarismo e della guerra, la Nazione che ha saputo respingere negli anni ’60, nei momenti dell’emigrazione di massa, le sirene della xenofobia e della chiusura in due storici referendum antistranieri che posero in essere anche il destino di tanti di noi, la Nazione simbolo dell’incontro e della solidarietà tra le genti non fa parte dell’Unione Europea. Esiste un Accordo bilaterale, è vero, però non fa parte dell’Unione Europea; e questa non può non sembrare una contraddizione reale.
È la terra delle quattro lingue e delle quattro culture: la germanica, la francofona, l’italica, la ladina di tanta parte dell’arco alpino. Conflitti e contraddizioni non sono assenti nemmeno in questo Paese, ma ritengo prevalga sempre lo spirito civile della solidarietà. Entro e nei pressi dei confini nazionali della Confederazione Elvetica hanno operato straordinarie figure, che sono oggi patrimonio dell’umanità. Basti ricordare Jean Jacques Rousseau, il letterato e filosofo del Contratto sociale del 1762, che fu il precursore della Rivoluzione francese; Johann Pestalozzi, uno dei maggiori educatori di ogni tempo, il maestro del Vivere nel popolo e col popolo; Albert Schweitzer, teologo e filosofo, medico missionario, fondatore di “Lambarene”, Premio Nobel per la pace nel 1952. Io credo che questo sia un giusto e doveroso omaggio al Paese che ci ospita.
Nel mio intervento mi limiterò ad alcune considerazioni e ad indicare quello che io ritengo l’obiettivo principale che dovrebbe ispirare i nostri lavori nel corso delle tre giornate. Mi sembra essenziale sottolineare come i lavori di oggi e domani si ripromettano di ricostruire, seppure per sommi capi, l’evoluzione della comunità italiana in Svizzera e - io direi - in Europa, partendo dall’identità degli individui e scoprendone memorie, coscienza del presente, progetti per l’avvenire. Oggi e domani, nel tracciare l’evoluzione dell’emigrazione italiana – avremo poi modo di ascoltare alcuni connazionali che hanno avuto successo nel Paese ed hanno dato un forte contributo al suo sviluppo – vorremmo riappropriarci delle nostre radici, prendere coscienza di quanto oggi siamo nelle realtà politiche, economiche, sociali e culturali di questo Paese e nel contesto delle Nazioni in cui viviamo ed operiamo.
Se mi guardo attorno – ora vivo a Parigi, però ho trascorso parte della mia vita nella Regione di Zurigo – se guardo alle grandi costruzioni nel campo dell’edilizia vedo solo nomi italiani: sulle gru, nelle cave, nelle case in costruzione, e questo è il sintomo di una emigrazione italiana che si è fatta cittadinanza, che ha saputo vivere con successo una straordinaria esperienza culturale, sociale, umana che non le era propria. Io credo che occorra riflettere sin da oggi sul futuro che ci aspetta, sui progetti che vogliamo realizzare. La comunità italiana va vista come patrimonio complessivo dei Paesi in cui operiamo, della Svizzera, dell’Italia e dell’Europa.
Di concerto con la delegazione svizzera abbiamo chiamato questo nostro incontro “Evoluzione di una risorsa”. È un’affermazione ambiziosa ma è anche e soprattutto la valorizzazione di una realtà: da emigrati a cittadini, cittadini svizzeri, cittadini di una Unione Europea ancora tutta da costruire di cui la Svizzera fa parte di fatto per tradizione, storia, cultura, interessi economici, sociali, commerciali, umani. Essenziale quindi, io credo, sia ricercare oggi i profili culturali, linguistici, sociali, economici, imprenditoriali, le possibilità di partecipazione politica e di impegno civile della comunità italiana come sono stati vissuti da ogni emigrato in passato, dalla maggioranza di noi tutti nel corso della costruzione delle nuove identità personali e collettive della comunità italiana.
L’impegno della delegazione svizzera nel corso dei mesi passati è stato importante e valido il tentativo, che io credo di successo, di scorporare i grandi temi al centro del dibattito affrontandoli e discutendoli in momenti diversi, in quelle che io chiamerei tre distinte tavole rotonde, valorizzando nel contempo la ricchezza multiculturale linguistica, la variegata realtà economica e sociale della Svizzera in queste importanti tappe: Zurigo, Losanna, Lugano, tappe di una discussione e di un dibattito che ha arricchito la delegazione svizzera e la comunità italiana in Svizzera, che può arricchire tutti noi, comunità italiana in Europa e in Nord Africa. L’impegno della delegazione svizzera, per il tanto che ha prodotto di riflessione e di proposte ci sarà sicuramente di grande utilità per l’oggi e l’avvenire; riflessioni che faranno discutere, che partono sempre dall’affermazione del diritto ad essere considerati cittadini della Svizzera non in riferimento ad una cittadinanza astratta, bensì ad una cittadinanza che gli italiani hanno acquisito nella terra degli elvezi attraverso l’integrazione sociale, economica, culturale nel contesto della società.
Non si può fare la storia della Svizzera, dei suoi agglomerati urbani, e direi che non si può fare la storia dell’Europa senza fare la storia degli italiani. Siamo cittadini del villaggio elvetico, siamo cittadini dell’Unione Europea perché qui abbiamo costruito i nostri sogni, i nostri progetti e il nostro avvenire. Cittadini italiani, quindi; cittadini della Svizzera, quindi; cittadini dell’Unione Europea, quindi, per poter costruire nuove occasioni, allargare lo spazio sopranazionale dell’esercizio dei diritti ancora incompiuti, civili e politici, di ogni appartenenza etnica e nazionale e per poter godere appieno dei diritti fondamentali e delle libertà sanciti nella Carta dei diritti dell’Unione Europea.
Sono queste le poche considerazioni che volevo portare all’attenzione di tutti voi aprendo questi nostri lavori.

INTERVENTO DEL SEGRETARIO GENERALE FRANCO NARDUCCI

Saluto con grande cordialità tutti i presenti e voglio soprattutto esprimere un particolare ringraziamento agli esperti, che hanno offerto rappresentazioni di grande rilievo come ci si può attendere da chi è chiamato quotidianamente a dare sostegno al sistema Italia, come le Camere di Commercio, oppure da chi è impegnato tutti i giorni sul versante dell’attività imprenditoriale. Non credo sia facile per chi è abituato a risolvere i problemi, a fare impresa ogni giorno, ad ingegnarsi per conquistare posizioni sui mercati e cercare di realizzare innovazione, calarsi nella nostra realtà e confrontarsi con noi, che probabilmente abbiamo un’idea un po’ diversa rispetto ai fatti concreti che sono stati presentati. Ringrazio anche Gianni Farina, che nel suo intervento introduttivo ha richiamato i valori fondamentali che riguardano l’emigrazione, i valori del mondo del lavoro, un mondo la cui storia a volte è stata anche cruenta.
Oggi l’equazione lavoro-impresa non può assolutamente essere disgiunta, ma vorrei fosse chiaro che se in questa Commissione parliamo di impresa, non intendiamo accreditare una visione dell’emigrazione esclusivamente all’insegna delle sue potenzialità di rete economica, poiché dietro c’è molto di più: il problema del lavoro e delle imprese che devono offrire opportunità di lavoro. Sappiamo che in Europa - per restare nell’ambito d’interesse della nostra Commissione - le cifre della disoccupazione sono impressionanti. La disoccupazione in Germania, le cui cifre sono sicuramente attendibili poiché non vi sono emersioni da incentivare, non c’è lavoro nero – pur se il modello di orario di lavoro alla Volkswagen ha prodotto fenomeni di lavoro nero – ha raggiunto livelli impressionanti; ed anche in Italia il tasso di disoccupazione è elevato. Pertanto, ragionare di economia e di impresa, di sviluppo e di lavoro, significa anche valutare attentamente le interconnessioni che si stabiliscono tra lavoro e immigrazione, ovvero economia, sviluppo e povertà.
Certamente si potrebbe cogliere una contraddizione tra la situazione sopra descritte e il fenomeno delle green cards, il fatto cioè che la Germania importi a tranches dall’India centomila informatici, secondo un modello che viene riproposto anche in altre parti d’Europa e che in ogni caso non costituisce la vera chiave di lettura di quanto sta avvenendo.
In questa Commissione vogliamo affrontare un tema di grandissima attualità, vogliamo parlare delle dinamiche di espansione economica scendendo su un terreno inusuale per il CGIE, perché siamo allenati soprattutto nel rivendicare i diritti, nell’analizzare i problemi degli anziani, della formazione, dei corsi di lingua e cultura italiana, dello status dell’emigrato. Questo è il terreno sul quale per anni abbiamo lottato e ci siamo confrontati, vincendo alcune battaglie, ottenendo anche riconoscimenti a livello dei diritti politici.
Per anni gli italiani inconsciamente sono stati richezza; con le rimesse dirette hanno creato un flusso di risorse verso l’Italia che ha consentito di mantenere le piccole economie dei paesi del Sud come pure del Nord, perché dall’Appennino emiliano, dal Friuli, dal Veneto, dalla Lombardia, milioni di italiani hanno fornito mezzi economici al nostro Paese. Per anni la comunità italiana internazionale ha fatto da tramite al know-how, al marchio italiano, sicché senza grandi strategie di marketing l’Italia ha potuto conquistare mercati e collocare i prodotti in modo piuttosto semplice e poco costoso.
Oggi che la situazione è cambiata, che cosa possiamo fare? È in quest’ottica che s’inquadra il ragionamento che stiamo avviando. Noi riteniamo che si debba creare un sistema tale per cui l’Italia, che a livello mondiale si colloca oggi tra le prime potenze in campo industriale ed economico, possa mettere a frutto questa rete portentosa che possiede nel mondo conseguendo vantaggi, che però non devono essere ancora una volta a senso unico e si devono invece configurare su un doppio binario di andata e ritorno.
Va ricordato che il Governo, in particolare in occasione della Conferenza degli Ambasciatori e dei Consoli, ha fornito indicazioni ed ha tratteggiato obiettivi da perseguire proprio in questa direzione, salvo poi osservare che le “nozze non si possono fare con i fichi secchi”, un’espressione che nel mese di luglio ha guadagnato largo spazio nei media di ogni genere.
Cosa vuol dire fare sistema? Ponendomi con un atteggiamento critico considero anzitutto che manca un fulcro, un centro di coordinamento riconosciuto, poiché in molti hanno sottolineato che l’Istituto per il Commercio con l’Estero non ha soddisfatto le attese riposte. Il sistema camerale ha sicuramente svolto un ruolo da protagonista - forse meno in Italia e molto di più all’estero – caratterizzandosi per dinamismo, capacità d’iniziativa a 360 gradi e di innescare processi di tipo economico che hanno dato sostanza al lavoro in favore delle imprese italiane in termini di supporto logistico e di interrelazioni con i sistemi produttivi locali. Oggi però, di fronte all’accelerazioni dei processi economici in ogni direzione, occorrono idee nuove per la valorizzazione del prodotto italiano. Bisogna prima di tutto riconoscere che i protagonisti non possono essere abbandonati a se stessi o penalizzati con intollerabili ritardi, analogamente a quanto avviene per gli Enti che “consentono” di realizzare i corsi di lingua e cultura italiana.
Ma ciò che a mio avviso soprattutto manca, in questo sistema che si vuole costruire, è un coordinamento integrato capace di creare una rete relazionale che metta in sinergia le diverse realtà e sia in grado di promuovere l’esperienza acquisita sui territori all’estero, ma anche di valorizzare l’imprenditività degli italiani emigrati, che comunque hanno un riferimento nelle imprese italiane o nel prodotto italiano. Basti pensare alla ceramica, all’arredamento da bagno, ai prodotti enogastronomici, alla moda di alto livello, all’industria dell’abbigliamento e a tanti altri prodotti che in molti casi escono dal grande patrimonio di piccole e medie imprese che indubbiamente – e fortunatamente – l’Italia possiede. E non si devono mettere nel dimenticatoio i vantaggi enormi che l’industria automobilistica italiana ha tratto dal mondo degli emigrati in termini di vendita e di promozione d’immagine.
Per valorizzare al meglio la nostra rete di presenze nel mondo è però necessario rilanciare prima di tutto il sistema imprese italiano, poiché vi sono situazioni di difficoltà tutte italiane, che ne frenano notevolmente lo sviluppo e il successo sui mercati mondiali. Negli anni ’60 e ’70 l’Italia deteneva il 4,2 % del commercio mondiale; oggi la percentuale è scesa al 3,9 %. Non mancano spiegazioni a tale fenomeno, a cominciare dal fatto che il sistema bancario non è adeguato a sostenere le imprese che operano all’estero. Se la contrazione è stata tutto sommato contenuta, bisogna dire che vi è stata l’espansione incredibile delle piccole e medie imprese, che però non vivono, come tutti, sonni tranquilli. Pesa in termini negativi soprattutto il calo di affermazione delle grandi imprese italiane, che negli anni ’60 e ’70 avevano più successo di oggi nell’aggiudicarsi appalti e ordinativi sui mercati mondiali.
Non siamo poi in grado di chiudere la fase di tangentopoli, che ha coinvolto pesantemente nel sistema delle tangenti le imprese di costruzione italiane. Il prezzo che hanno pagato ha indubbiamente ridotto la loro competitività fuori dai confini nazionali, per cui sulla scena degli appalti internazionali oggi l’Italia non ha più quella capacità di penetrazione che nel campo della cantieristica la contraddistingueva negli anni trascorsi.
Gli italiani all’estero – come dimostrano le statistiche dei singoli Paesi – sono sempre più protagonisti nel campo del lavoro autonomo e nella creazione d’impresa. Siamo al cospetto di un valore non indifferente da promuovere in una logica d’interrelazioni. Al riguardo occorre rimarcare la forte relazione tra formazione professionale e lavoro autonomo. Nel settore artigianale sappiamo bene – e non dobbiamo dimenticarlo – che un gran numero delle persone che si sono affidate alla formazione professionale hanno acquisito cognizioni, capacità, competenze e che hanno poi avviato una propria piccola impresa. La formazione ha rappresentato una carta importantissima ed oggi ha un valore ancora più grande se inquadrata nell’ottica formazione-lavoro-impresa. Questo deve necessariamente essere il nuovo trend, che potrà produrre effetti anche sulla microimpresa, un trend che trova conferma, del resto, negli interventi per i lavoratori immigrati messi in campo dalla Svizzera insieme ai suoi partner Portogallo e Spagna.
Cosa chiedono le nostre comunità? Anzitutto, che si guardi con maggiore attenzione al lavoro autonomo dei nostri connazionali all’estero e che si risolvano i problemi denunciati. Io credo che le piccole e medie imprese abbiano maggiore capacità di creare una rete relazionale e di entrare in sinergia con le comunità italiane all’estero che fanno impresa, che cercano di creare lavoro autonomo e che comunque sono un tramite fondamentale per il prodotto italiano. Non esiste però un approccio sistemico, se si escludono le imprese associate alle Camere di Commercio, che consenta al nostro Paese e ai nostri connazionali emigrati di trarre maggiormente vantaggio dalle realtà descritte.
Oltre ad una cabina di regia integrata occorre coraggio e idee innovative. Basti pensare al credito d’onore, di cui più volte è stata evidenziata la necessità di estenderlo ai giovani italiani residenti all’estero, al fine di incentivare le possibilità di sviluppo del lavoro autonomo nel sistema a rete delineato; però, nonostante certe dichiarazioni, si continua a fare orecchio da mercante. È un terreno sicuramente difficile sul quale il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, se ha la responsabilità del ruolo che è chiamato a svolgere, non può mancare di scendere. Deve farlo con molta umiltà, costruendo le conoscenze specifiche, le capacità di lettura e una visione ampia, tenendo presente i tanti italiani di passaporto che fanno impresa dimostrando fatturati di tutto rispetto. Nei momenti seminariali di avvicinamento a questa Commissione, essi sono venuti ai nostri appuntamenti ed hanno messo in luce attività che sono chiaramente inquadrabili in una matrice di relazioni con l’Italia.
Voglio ribadire che si deve procedere senza mai dimenticare che la nostra riflessione, e il nostro dibattito devono svilupparsi partendo dalla nostra cultura, dai nostri valori, da ciò che siamo stati e siamo, per approdare anche nelle complesse problematiche di stampo economico. Agli esperti che fanno impresa, alla Camera di Commercio, che si occupa giorno per giorno di promuovere il sistema economico italiano, rivolgo l’invito a ricordare che esistono anche situazioni di difficoltà, di disagio - probabilmente in numero inferiore in Europa che altrove - con la consapevolezza, però, che lavoro e impresa costituiscono una risposta in termini di soluzione.
In definitiva, se non si crea impresa non si crea lavoro, se crollano le imprese si riduce il lavoro. Al riguardo non vogliamo dimenticare il richiamo alle “regole certe” e la condanna delle operazioni selvagge, dei fenomeni cui abbiamo assistito in questi anni, di disgregazione delle imprese e massimizzazione dei profitti a scapito di un bene prezioso come il lavoro.





 
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