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22 dic 2008“EMIGRANTI PER MOTIVI RAZZIALI” / di Gerardo Severino


IL CASO DEL PROFESSORE BEPPO LEVI

di Gerardo Severino


In questi ultimi giorni, il settantesimo anniversario dell’emanazione delle cosiddette “leggi razziali” ha fatto molto discutere gli italiani - e non solo loro - innescando non poche polemiche circa le eventuali responsabilità, il coinvolgimento ideologico, e persino riguardo al presunto silenzio da parte della Chiesa Cattolica, dinanzi all’ignobile scelta di perseguitare una comunità solo per cagione di razza e di religione. Per i più giovani è doveroso soffermarsi un attimo sul significato e, soprattutto, sulle conseguenze che tali leggi produssero. Con esse - occorre ribadire - l’Italia intera, e non solo la sua “classe dirigente” (come qualcuno preferisce comodamente asserire), si macchiò di una grossa infamia, resa ancor più grave in quanto dette leggi furono destinate a colpire una modesta minoranza di cittadini italiani, colpevoli di appartenere ad una “razza”, quella israelita, alla quale un despota di nome Hitler aveva riservato persino l’annientamento fisico. Con il varo dei cosiddetti “Provvedimenti per la difesa della razza”, una serie di norme giuridiche (completate da varie e farneticanti circolari ministeriali) emanate nel corso del 1938, anche il regime fascista, desideroso di emulare l’alleato d’oltralpe, diede, quindi, sfogo alla persecuzione dei cittadini di religione ebraica, fatte salve alcune stupide eccezioni o varianti. Grazie alla complicità di Re Vittorio Emanuele III, che firmò le leggi senza colpo ferire, gran parte della buona e colta società nazionale non si scandalizzò minimamente dinanzi all’ennesima discriminazione. In virtù di essa, infatti, gli ebrei italiani furono espulsi dalla Pubblica Amministrazione, estromessi dall’istruzione statale e dal relativo insegnamento, cancellati dagli ordini e dagli albi professionali, privati delle uniformi militari. Non solo, ma agli ebrei d’Italia fu proibito sposarsi con gli “ariani”; i loro cognomi furono eliminati dagli elenchi telefonici e dalla toponomastica cittadina; gli fu persino proibito l’acquisto di apparecchi radio. Nel nostro Paese, di antisemitismo s’incominciò a respirarne l’aria sin dal 1934, allorquando, il giornale “Il Tevere” inaugurò la stagione della propagandata antirazziale. Il sentimento antiebraico fu poi ripreso dal quindicinale “La difesa della razza”, il cui primo numero uscì proprio ad agosto del fatidico 1938. Sul piano politico-istituzionale, invece, la persecuzione degli ebrei italiani riscontrò una prima attuazione pratica con l’emanazione del R. decreto del 5 settembre ’38, con il quale furono varati i primi provvedimenti per la difesa della “stirpe” italiana nelle Scuole del Regno, in applicazione dei quali gli Istituti Scolastici e le Università furono preclusi sia agli alunni che agli insegnanti di fede ebraica. Con la famigerata “dichiarazione sulla razza”, approvata dal Gran Consiglio del fascismo il 6 ottobre e con il successivo R. decreto del 10 ottobre ‘38, con il quale fu “completato il quadro normativo”, la politica antiebraica impose ai figli di Davide ulteriori ristrettezze economiche ed una lunga sequela di proibizioni, umiliazioni e limitazioni delle varie forme di libertà. Al di là dell’aspetto morale, certamente non secondario rispetto ad altri, la perdita del posto di lavoro, soprattutto da parte di chi prestava servizio nell’apparato statale, assunse una particolare rilevanza. E se per la stragrande maggioranza degli ebrei italiani non vi fu alcuna possibilità di mutare la propria situazione personale e familiare, per una ristretta minoranza di loro la via dell’emigrazione sembrò la scelta migliore, soprattutto per chi ebbe la lungimiranza o la possibilità materiale di scegliere le lontane Americhe, anziché l’Europa, ove l’anno dopo scoppierà il 2° conflitto mondiale. In Paesi come gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile ed il Cile, ove molto forte era la presenza italiana, numerosi nostri connazionali ebrei trovarono ospitalità, rifugio e, soprattutto, uno scampo sicuro dal quell’orribile “caccia” che tedeschi (e gli stessi fascisti) inaugurarono in Italia, a partire dal settembre 1943, dopo il buon esito registrato in quella parte d’Europa ove, ormai, sventolava la svastica. Ancora una volta, quindi, il nostro Paese assisteva alla cosiddetta “fuga dei cervelli”, un fenomeno oggi molto noto ed ascrivibile all’emigrazione degli scienziati italiani verso quegli Stati ove maggiori sono gli investimenti nel settore della ricerca, ma che nel Risorgimento aveva coinvolto molti esponenti del mondo della scienza e dell’intelletto, in fuga dalle persecuzioni antiliberali. A seguito delle leggi razziali volute da Mussolini, numerosi intellettuali, scienziati, artisti ed uomini di libero pensiero - ebrei e non - varcarono i confini nazionali per raggiungere Paesi amici, o comunque più tollerabili verso chi portava al collo la Stella di Davide anziché la croce di Cristo, ovvero nulla poteva ormai contro il fanatismo della dittatura. Fra di essi, merita un particolare cenno l’Argentina, ancora oggi considerato come il Paese più italiano fra quelli che compongono l’area latino-americana. A partire, infatti, dallo stesso 1938, sulle rive del Rio de la Plata sbarcarono, fra i tantissimi emigranti italiani, uomini di grande prestigio mondiale: scienziati, professori ed uomini di cultura italiani di elevatissimo spessore, ai quali l’Argentina, se pure con non poche difficoltà, serbò una vita certamente migliore. Molti i nomi noti e fra questi il grande matematico torinese Beppo Levi, al quale dedichiamo questo articolo, sia in ricordo del lustro che Egli ha dato all’Italia, sia in rappresentanza di tutti gli altri esponenti della scienza e della cultura nazionale (come il noto Enrico Fermi) ai quali l’Italia rinunciò per sempre in quanto ebrei. Beppo Levi nacque e Torino il 14 maggio 1875, membro di una fra le più antiche famiglie ebree della vecchia capitale italiana. Rimasto orfano del padre in giovine età, il Levi iniziò da subito a lavorare, dovendo anche sostenere la numerosa famiglia. Alternando lo studio al lavoro, al quale si dedicava dalle tre alle otto del mattino, Beppo Levi si laureò in matematica nel 1896, appena ventunenne, allievo del grande Corrado Segre, anch’egli di religione ebraica Quella per la matematica era per Beppo una vera passione, che aveva scoperto sin da bambino e che condivideva con il fratello più piccolo Eugenio Elia, il quale morirà nel corso della 1^ Guerra Mondiale, ad appena ventidue anni. All’insegnamento della matematica, che lo vide docente presso alcune rinomate Università, Beppo Levi alternò l’attività scientifica, in virtù della quale collaborò alle più importanti riviste specializzate europee, sulle pagine delle quali pubblicò i resoconti delle sue ricerche nei campi della logica, dell’insiemistica, della geometria algebrica e dell’analisi matematica. Fra i suoi numerosi scritti si annoverano due trattati, il più importante dei quali fu sicuramente la “Introduzione alla analisi matematica”, pubblicata nel 1916 dall’editore A. Hermann e Figli. Dopo l’insegnamento presso l’Università di Cagliari, il Levi fu decano dell’Università di Parma per dieci anni ed in seguito Direttore della Facoltà di Matematica presso l’Università di Bologna. La sua eccelsa preparazione scientifico-culturale, la quale comprendeva anche la fisica e la storia, gli valse la nomina a membro dell’Accademia delle Scienze di Bologna e, soprattutto, della prestigiosissima Accademia dei Lincei. Con la discriminazione razziale del 1938, Beppo Levi, ormai noto al mondo intero, ricevette dal Professor Cortés Pla l’offerta di dirigere, in Argentina, l’Istituto di Matematica della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisico-Chimiche e Naturali dell’Università di Rosario. Dopo un’iniziale ostacolo/diniego da parte del Governo argentino, Beppo Levi e la sua famiglia approdarono in Sud America nel 1939, quali semplici turisti. Nel novembre dello stesso anno, per intercessione del Rettore Pla, il Professore torinese assunse la Direzione dell’Istituto universitario, organizzando le lezioni su due corsi distinti, i quali iniziarono ad operare ancor prima dell’inaugurazione ufficiale, che si tenne nel maggio del 1940. Ed a tale Istituto, Beppo Levi dedicò gli ultimi vent’anni della sua vita avventurosa, alternando la Direzione all’insegnamento dell’analisi matematica, dell’algebra, della geometria e della meccanica razionale. Allorquando compì 80 anni, come ricorda Ada Korn nel capitolo “Contributi scientifici degli italiani in Argentina nel ventesimo secolo” (pubblicato nel libro Euroamericani, edito dalla Fondazione Agnelli nel 1987): “… l’Unione Matematica Argentina gli rese un caldo omaggio; poco dopo l’Accademia dei Lincei gli conferì il premio Feltrinelli, grazie ad una risoluzione di una commissione di matematici di prestigio mondiale”. Il Professor Levi morì a Rosario il 28 agosto 1961, a pochi giorni dalla sua rinuncia all’incarico professionale, compianto sia dal mondo scientifico argentino ed internazionale, con in testa il Professor Alberto Gonzalez Dominguez, sia dalla folta comunità italiana stanziata nella bellissima città del Litoral. Otto anni dopo la scomparsa, quello stesso nome, che nel 1938 era stato persino cancellato dall’elenco telefonico della città di Bologna, fu conferito all’Istituto di Matematica che lo aveva amorevolmente accolto nel 1939 e che il Levi aveva magistralmente diretto per oltre vent’anni.

Gerardo Severino/Italia Estera 








 
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