di Mario Sista
Il celibato “che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma”, é oggi oggetto di critiche e di richieste di rivalutazione.
ROMA, 27 FEB, (Italia Estera) - Le affermazioni dell’arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, nuovo Presidente della Conferenza episcopale tedesca, a favore di una possibile revisione della legge sul celibato dei preti, hanno riacceso l’interesse dell’opinione pubblica sul tema.
A questa posizione hanno fatto eco le analoghe richieste formulate dal clero brasiliano che, nel documento redatto al termine del dodicesimo Incontro Nazionale dei Sacerdoti, ha chiesto ufficialmente al Papa di rivedere la legge ecclesiastica sul celibato sacerdotale.
I due interventi non sono che gli ultimi di una lunga serie a favore del matrimonio dei preti che, a partire dal Concilio Vaticano II, il quale - è bene ricordarlo - aveva ribadito la necessità del celibato per i sacerdoti di rito latino, si sono verificati in tutto l’ecumene cattolico. Valgano per tutti il caso di Mons. Milingo, le cui richieste su tale argomento sono state bocciate nel novembre 2006 dal Vaticano, e quello del sacerdote Giuseppe Serrone, le cui vicende, sempre nel 2006, hanno attirato l’attenzione della stampa nazionale.
Il celibato sacerdotale, “che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma”, sono le parole di Paolo VI, viene ad essere oggi oggetto di critiche e di richieste di rivalutazione. Questo fatto deve indurre il lettore e, ancor più il credente, a riflettere ed a comprendere bene l’argomento oggetto di discussione.
Innanzitutto bisogna ribadire che il celibato non è un qualcosa di necessario alla fede, bensì una antica consuetudine che, a partire dal 386 d. C. è andata sempre più cristallizzandosi in Occidente, divenendo obbligatoria per i preti di rito romano ed ambrosiano.
I motivi, teologicamente e praticamente parlando, sono fondati: se Cristo è lo sposo della Chiesa, così il prete è lo sposo della comunità; inoltre, non convolando a nozze, egli è libero di dedicarsi a tempo pieno al gregge affidatogli, cosa che gli risulterebbe meno facile se dovesse avere una famiglia propria. Altrettanto fondati sono anche i motivi di coloro che chiedono un ripensamento sul celibato: proprio perché Cristo è sposo sarebbe un bene permettere il matrimonio ai preti; inoltre il prete uxorato capirebbe meglio i problemi “del mondo” in quanto anch’egli marito e padre come tutti.
La Chiesa conosce tutto questo e, difatti, nella sua equilibrata a millenaria riflessione, oltre a dichiarare che il celibato non è un dogma di fede, permette agli altri sacerdoti non latini il matrimonio. Basta recarsi in Calabria o in Sicilia, nelle due Eparchie greco-cattoliche di Lungo e di Piana degli Albanesi per avere un’idea su cosa significhi un prete cattolico con tanto di moglie e prole.
Il problema, quindi, riguarda solo ed esclusivamente i preti che seguono il rito romano ed ambrosiano (cioè i preti delle diocesi che si rifanno al rito in uso nella Chiesa di Milano). C’è da dire che oltre alle motivazioni teologiche che hanno comportato per essi l’obbligo del celibato, ci sono stati anche tanti altri fattori storici e culturali che hanno influenzato tale scelta, ne cito uno come esempio: il desiderio di mantenere intatto il patrimonio della Chiesa a favore - almeno così in origine - dei poveri, cosa che sarebbe stata impossibile se il clero fosse stato uxorato.
Ci si chiede se non sia giunto anche per i preti latini ed ambrosiani il momento di poter scegliere liberamente la propria condizione personale.
Il fatto che molti chiedono una modificazione della legge ecclesiastica sul celibato fa riflettere, in quanto per essi questo vincolo, lungi dall’essere un approdo di libertà, viene visto come un qualcosa da accettare per forza per poter vivere la propria vocazione sacerdotale. Come mai, quindi, il celibato viene se non rifiutato, almeno fortemente criticato?
Probabilmente la risposta è in ciò che il teologo Ghislain Lafont chiamava “vocazione nella vocazione”. Questi, infatti, sosteneva che la vocazione sacerdotale, in diversi candidati, non contempla automaticamente anche la vocazione al celibato. Coloro che debbono discernere la presenza in un giovane della chiamata sacerdotale, dovrebbero capire se lo stesso giovane è chiamato anche al celibato. Ovviamente riuscire a comprendere questo è molto difficile. Allora, se il celibato non intacca la sostanza della fede, ci si può legittimamente chiedere se non sia il caso di permettere il matrimonio anche a coloro che hanno la vocazione sacerdotale ma non quella al celibato (e sono molti).
Difatti, è proprio quello che hanno fatto i preti brasiliani e, nella sua intervista, l’arcivescovo di Friburgo. Tuttavia quest’ultimo dice anche un’altra cosa importante, e cioè che il celibato “non potrebbe essere cambiato senza convocare un nuovo Concilio, in quanto avrebbe effetto importante sulla vita interna della Chiesa cattolica''. Giusta osservazione: si tratterebbe di riformare qualcosa che interessi l’intera Chiesa, per cui sarebbe auspicabile che questo avvenisse in un Concilio, ferma restante l’autorità del Papa di decidere diversamente.
La questione del celibato, però, non è l’unica sfida che la Chiesa cattolica del Terzo millennio si trova ad affrontare: altre, e ben più gravi, sono le sollecitazioni che vengono dal mondo in cui essa si trova. Prima fra tutte la ridotta capacità di incidenza che essa oggi ha nella vita dei fedeli. Si assiste, infatti ad una situazione nella quale magistero e fedeli sembrano, il più delle volte, camminare su dei binari paralleli.
Laicizzazione imperante, contestazione su ogni aspetto della vita morale, prima di tutto sulla concezione dell’aborto e del matrimonio, spinte velatamente autonomistiche in alcuni campi della teologia sono, inoltre, altri sintomi del fatto che la Chiesa, sia ad extra che ad intra, sembra usi un registro che non tutti, per i più svariati motivi, capiscono o condividono. La stessa struttura gerarchica, seppure rivelativa di un organismo organico e ben strutturato, in cui il garante dell’unità è il Papa, per alcuni è da rivedere totalmente, magari decentrando alcuni poteri che il Papa, a partire dal Medioevo e per giusti motivi, ha avocato a sé: il più importante tra i quali è quello della nomina dei vescovi, un tempo appannaggio dei fedeli e del clero.
Come si può vedere, in gioco non è tanto la questione di riformare la Chiesa , la quale per sua natura semper reformanda est, ovvero in continua riforma, quanto di riuscire a cogliere il cambiamento repentino del mondo attuale in cui essa vive ed al quale essa parla; per far questo c’è bisogno di saper scrutare meglio quelli che Giovanni XXIII definiva i “segni dei tempi”, cosa difficile, certo, ma necessaria per una fruttuosa proposta del messaggio cristiano, il quale per sua natura è capace di inculturarsi oggi come duemila anni fa.
Mario Sista/Italia Estera