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07 apr 2007dal Messaggero di sant'Antonio: Buon Compleanno Papa Benedetto di Renato Molia

PADOVA, 7 APR (Italia Estera) - Il 16 aprile Benedetto XVI compie 80 anni e il 19 celebra il secondo anniversario di Pontificato. Un’ occasione per tentare una prima riflessione su alcuni aspetti sulla sua personalità e sul suo Pontificato che forse trovano uno spazio relativamente poco adeguato nel complesso della grande informazione internazionale. In particolare, un punto che viene sempre accennato, ma forse meno indagato è quello spesso sintetizzato con l’espressione «Papa teologo». Ebbene: in questa teologia, in questo discorso su Dio e con Dio, in questo strumento alto della sequela di Cristo nel quale il sacerdote, il vescovo, il cardinale Joseph Ratzinger ha trascorso la vita, egli stesso, una volta chiamato ad essere il Pastore della Chiesa universale, ha voluto e saputo incardinare il suo Ministero.
   Gli esempi da citare, in questi due anni, sarebbero già assai numerosi. Per necessaria sintesi, ci limiteremo ad accennarne uno e ad indagarne un altro, approfondendo in parte un dialogo con i lettori già avviato in questi due anni. Il primo è un libro, non ancora uscito, con il quale Benedetto XVI si appresta a consegnare al lettore la storia della sua esperienza di cristiano. Il fatto è in sé quasi privo di precedenti. Scrivendo un’autobiografia dell’anima, il Papa non vuole – e ovviamente non può – farne un paradigma dottrinale, ma desidera recuperare quel significato di testimonianza personale che rientra certo nella grande tradizione della letteratura religiosa, ma che, almeno in secoli recenti, non è stato uno strumento utilizzato da Papi, sia pure da Papi dotati di una costante consuetudine  con lo strumento letterario. Persino nella pagine di Paolo VI, forse il più grande scrittore religioso del Novecento (all’estensore di questo articolo, se un parere personale può valere, basta rileggere la Populorum progressio, a rafforzare tale convinzione), a parlare è sempre il Maestro di fede. Benedetto XVI, con questa scelta, offre un contributo diverso, da un lato ovviamente non vincolante, ma dall’altro forse più coinvolgente. «Sono un uomo che ha incontrato Gesù e voglio palarne con te», sembra dire al lettore. Parlarne tra persone – tra pari verrebbe da dire – accomunate dall’esigenza di capire le eterne domande dell’uomo: «Chi sono? Da dove vengo? Dove vado».
Ma certo, anche in questo, l’uomo Ratzinger non si discosta dal Papa Benedetto XVI. Lo dimostrano le risposte, puntuali e caritatevoli, alle diverse polemiche che hanno investito il Papa in questi due anni, sia a livello internazionale in materia di relativismo etico e di rapporti interreligiosi, sia in Italia, dove si sono moltiplicate le accuse di una presunta ingerenza nella sfera politica e istituzionale, con strumentali contrapposizioni ai Pontificati precedenti, soprattutto quello di Giovanni Paolo II, e addirittura a un qualche «spirito del Concilio» che sarebbe stato ormai lasciato alle spalle. Si tratta di un’evidente sciocchezza che nessun osservatore, intellettualmente onesto, si sentirebbe di avvallare.
Se davvero si vuole trovare una diversa impostazione tra Benedetto XVI e i suoi grandi Predecessori, essa non va ricercata nelle «diagnosi», né nelle finalità. Il punto che sembra provocare frizione, se tale lo si vuol definire, non è il relativismo imperante nel mondo, ma semmai i modi della testimonianza, il nodo dell’evangelizzazione. Su questo, Benedetto XVI si è espresso chiaramente il 13 maggio 2006, rispondendo alle domande dei sacerdoti della diocesi di Roma riuniti in San Giovanni in Laterano: «L’essenza del cristianesimo – ha detto il Papa – non è un’idea, è una Persona. Qui troviamo una risposta a una difficoltà quanto alla missionarietà della Chiesa. A volte si sente dire “Essi hanno la loro autenticità, conviviamo pacificamente, che ognuno cerchi nel miglior modo la propria autenticità”. Ma se noi abbiamo trovato il Signore, se per noi c’è la luce e la gioia del Signore, siamo sicuri che all’altro che non ha trovato Cristo manca una cosa essenziale ed è dovere nostro offrirla all’altro».
Questa offerta è la stessa sia nel citato libro autobiografico che sta per uscire, sia nei documenti del Pontificato, a partire dalla sua prima enciclica, la Deus caritas est, appunto, il secondo esempio al quale avevamo poc’anzi accennato. Una rilettura attenta dell’enciclica, infatti, mostra una duplice e intimamente connessa visione che è propria del teologo e del Papa, la riflessione cioè sull’Essere di Dio e sul dover essere della Chiesa. Tale connessione sembra infatti data per talmente evidente da far dividere l’enciclica in due parti distinte, all’apparenza senza «passaggi logici». La prima, offre una riflessione teologico-filosofica sull’«amore» nelle sue diverse dimensioni, precisando alcuni dati essenziali dell’amore di Dio per l’uomo e dell’intrinseco legame che tale amore ha con quello umano. La seconda, tratta dell’esercizio concreto del comandamento dell’amore verso il prossimo. Sta proprio nella sintesi tra questi due aspetti, nella loro riduzione ad unità, in una visione coerente e coesa, il senso autentico dell’antropologia cristiana così come la suggeriscono la visione, la concezione e infine il Magistero di Benedetto XVI.
Il Papa ci invita cioè ad una fede matura, la fede capace di diventare una visione-comprensione. «La fede – disse proprio il Papa commentando personalmente l’enciclica – non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita. In un’epoca nella quale l’ostilità e l’avidità sono diventate superpotenze, un’epoca nella quale assistiamo all’abuso della religione fino all’apoteosi dell’odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte».
Quanto alla supposta «frattura» del documento, è stato lo stesso Benedetto XVI a sottolineare che «una prima lettura dell’enciclica potrebbe forse suscitare l’impressione che essa si spezzi in due parti tra loro poco collegate: una prima parte teorica, che parla dell’essenza dell’amore, e una seconda che tratta della carità ecclesiale, delle organizzazioni caritative» (Udienza al Pontificio Consiglio Cor Unum del 23 gennaio 2006). Ma il Papa ha spiegato: «a me interessava proprio l’unità dei due temi che, solo se visti come un’unica cosa, sono compresi bene», cioè che «l’organizzazione ecclesiale della carità non è una forma di assistenza sociale che s’aggiunge casualmente alla realtà della Chiesa, un’iniziativa che si potrebbe lasciare anche ad altri. Essa fa parte invece della natura della Chiesa», sia perché «lo spettacolo dell’uomo sofferente tocca il nostro cuore» sia e soprattutto perché «l’impegno caritativo ha un senso che va ben oltre la semplice filantropia. È Dio stesso che ci spinge nel nostro intimo ad alleviare la miseria. Così, in definitiva, è lui stesso che noi portiamo nel mondo sofferente».
E questo, ad interlocutori intellettualmente onesti, dovrebbe bastare come risposta sia alle accuse di merito rivolte all’attività caritativa della Chiesa (accusata di limitarsi a soccorrere il bisogno senza eliminarne la cause), sia a quella paradossalmente contrapposta di presunta ingerenza delle «cose di Dio» nelle «cose di Cesare», come se l’appartenenza ecclesiale escludesse il dovere del confronto con situazioni problematiche sempre nuove, lo sviluppo della dottrina sociale molto articolata, orientamenti validi nella gestione della convivenza umana, al punto che in gran parte sono recepiti dall’intera vicenda della costruzione del moderno diritto internazionale basato sulla priorità dei Diritti dell’Uomo, nella sua identità di persona e nelle sue aggregazioni fondamentali, prima tra tutte la famiglia, come luogo di costruzione di identità.
Al tempo stesso, con buona pace di quanti riconoscono diritto di intervento ad ogni lobby possibile su qualunque possibile questione, ma si riempiono la bocca con schizzi di saliva un po’ acidi sulla «ingerenza del Vaticano», andrebbe forse rammentata la più semplice delle verità, dimostrata da una testimonianza secolare oggi fatta propria e arricchita da questo Papa. La dottrina sociale cattolica, con Benedetto XVI così come con i suoi predecessori, così come nella grande lezione del Concilio (e gioverà forse ricordare che il Papa ha indicato esplicitamente proprio il Concilio come la «bussola» del suo Pontificato) non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato, ma semplicemente purificare e illuminare la ragione, offrendo il proprio contributo alla formazione delle coscienze, affinché le vere esigenze della giustizia possano essere percepite, riconosciute e realizzate. La creazione di un giusto ordine della società e dello Stato è infatti compito centrale della politica e quindi non può essere incarico immediato della Chiesa. Tuttavia non c’è nessun ordinamento statale che, per quanto giusto, possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo.
 
Renato Molia, Il Messaggero di sant'Antonio/Italia Estera



 
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