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28 feb 2007Salvatore Viglia intervista il Senatore Domenico Fisichella

ROMA, 28 FEB (Italia Estera) - Domenico Fisichella, Senatore da quattro legislature, è Professore ordinario di Dottrina dello Stato e di Scienza della politica nelle Università di Firenze e di Roma “La Sapienza”, docente di Scienza della politica presso la L.U.I.S.S. di Roma, membro del Comitato scientifico della “Rivista italiana di Scienza politica”, fa parte del Consiglio Scientifico e del Comitato scientifico ristretto dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. Ha scritto numerosi libri.

Salvatore Viglia lo ha intervistato sui temi di uno questi: “Denaro e democrazia. Dall'antica Grecia all'economia globale”, Il Mulino, Bologna, 2005 (nuova edizione).

            La globalizzazione è destinata ad alimentare le culture dell’apolis, cosa significa?
            «Che l’idea di Polis è l’idea, in qualche modo, nel mondo antico di patria e nel mondo moderno di nazione. La globalizzazione crea l’apolide, cioè colui che non lavora in funzione anche dell’interesse economico, per esempio, per la propria comunità, o per l’interesse economico della propria azienda, ma lavora oltre i confini nazionali. Si determina una situazione per la quale il profitto diventa il dato fondamentale indipendentemente dall’interesse nazionale e dal perseguimento di qualche interesse generale. Il profitto diventa fine a sé stesso».
            Lei afferma che l’assunto “più sviluppo economico uguale più democrazia” non è plausibile. Crede invece che il pensiero tecno-burocratica costituisce il più micidiale attacco mai portato al primato della politica.
            «Ebbene sì. Perché tutte le forme che noi abbiamo conosciuto da una certa fase storica in poi quanto meno, sono sempre forme politiche. Ci può essere stata la democrazia contro l’autoritarismo, il totalitarismo contro la democrazia, la democrazia contro la monarchia, la monarchia contro l’aristocrazia o viceversa, erano tutte forme politiche, cioè tutte forme fondate sul primato della politica. Oggi invece si assiste al primato dell’economia, cioè il rovesciamento, il ribaltamento fondamentale di quello che è un principio fondante della politica nella cultura occidentale ed europea perché l’idea della cultura occidentale ed europea è sempre l’idea che la politica abbia qualche connessione anche con forme di autonomia della politica sia rispetto al mondo economico, sia rispetto al mondo religioso. Il problema è la rivendicazione, da parte dell’economia, del primato. Nessuno invoca una società di poveri anche se nel mondo antico la democrazia era il governo dei poveri.  Incardinandosi in una società industriale, la democrazia moderna, viceversa, è una democrazia che si vuole compiere con lo sviluppo economico anche se la democrazia non esige sempre lo sviluppo economico. Quindi il problema non è un atteggiamento antidemocratico, il problema è evitare che l’economia realizzi il suo primato. perché il primato dell’economia e, quindi, la subordinazione o addirittura la cancellazione di tutti gli altri fini, dà luogo inevitabilmente ad un sistema oligarchico e quindi restringe gli spazi della libertà, al limite, può anche reprimere gli spazi dello sviluppo economico».
            E in cosa la democrazia moderna differisce da quella degli antichi?
            «La democrazia degli antichi è una democrazia che non conosce l’idea moderna di libertà, che non conosce l’idea moderna di rappresentanza politica e che quindi presenta una impostazione profondamente diversa rispetto alla democrazia dei moderni anche perché, terzo elemento strutturale fondamentale, non conosce la società industriale. La democrazia dei moderni è una democrazia che si impianta in un contesto di società industriale che ha già cominciato a sviluppare in maniera significativa certe sue premesse di tipo strutturale e culturale. Tutti questi elementi, naturalmente, fanno sì che certi parametri utilizzati per caratterizzare la democrazia degli antichi non abbiano più vigenza in un mondo contemporaneo. Un altro dato strutturale da mettere in evidenza è che la democrazia degli antichi è una democrazia di piccole comunità. La democrazia dei moderni, viceversa, è una democrazia di estese comunità. Si tratta di due realtà profondamente diverse che rappresentano elementi di distinzione fondamentali perché nel mondo antico, l’economia era drasticamente considerata un elemento strumentale della vita associata, cioè l’economia era il regno dei “mezzi” ma lo sviluppo economico, come tale, non era uno dei fini della società nel suo complesso. L’economia era un “mezzo”. Gli uomini “economici”, nella società di Platone, non erano nemmeno considerati cittadini e lo sviluppo economico non era considerato un fine ma un mezzo per il sostentamento della città. Nel mondo moderno, lo sviluppo economico diventa un fine della società. Una cosa è se lo sviluppo economico diventa uno dei fini della società, un’altra cosa è se diventa l’unico fine della società. Se diventa l’unico fine della società, rispetto al quale tutti gli altri sono subordinati o addirittura diventano mezzi in una logica di capovolgimento della cultura tradizionale relativa al primato della politica, allora, questo significa che si affermano o che possono affermarsi o che c’è spazio per l’affermazione di classi dirigenti di tipo imprenditoriale o tecnocratico che espungono progressivamente o le classi dirigenti di tipo politico o insieme a loro, anche le istituzioni che caratterizzano la democrazia moderna».
            Oggi, il rapporto tra denaro e democrazia, è da inquadrarsi nell’ottica di una società complessa fatta di oligarchie.
            «Il problema non è negare il ruolo dell’economia perché il ruolo dell’economia, in una società industriale avanzata e quindi anche il ruolo delle tecnologie, della finanza, del credito, sono tutte funzioni molto importanti per lo sviluppo della società. Il problema non è di assumere nei loro confronti degli atteggiamenti punitivi, altrimenti verrebbe meno lo sviluppo economico, lo sviluppo della società. I problemi della democrazia, sono quelli di trovare un punto di equilibrio che consenta lo sviluppo delle diverse funzioni. L’esigenza della divisione del lavoro postula che la politica abbia alcuni ruoli, l’economia ne abbia altri e la morale abbia il suo spazio. La cooperazione degli sforzi, postula che tra queste tre dimensioni non si crei, non si determini, una logica egemonica in ragione della quale ciascuna di esse voglia soppiantare indiscriminatamente le altre. Il problema della politica è, ancora una volta, il problema delle regole. Per questo, il primato della politica è un primato “regolativi”, non un primato “intervenivo”. Non è la politica che vuole intervenire sostituendosi  né alla morale, né all’etica. Il primato della politica è, dunque, un primato regolativo e, in questo contesto, è necessario però che la politica realizzi quell’equilibrio che impedisca forme di prevaricazione da parte dell’economia. Non è un problema facile perché, come metto in evidenza nel libro, un grande pensatore dell’800 francese, August Comte, ha scritto che nella società moderna: «Ci sono due forze, la forza concentrata e la forza dispersiva». La forza concentrata è quella economico-finanziaria, la forza dispersiva è quella del numero. Se il numero è organizzato in maniera adeguata da equilibrare la forza concentrata, riesce a mettere insieme in sistema di equilibri e farlo funzionare; se il numero però, non è organizzato come si conviene, può determinarsi o una dispersione, per così dire, del numero e, per questo motivo, perde la sua caratteristica di forza, oppure si può determinare una oligarchia del numero».
            Chi fa politica e vive del suo, fa politica per senso civico, è più affidabile?
            «Il partito come organizzazione moderna, postula un ceto professionale o semi professionale. Il problema, in questo caso, è che, siccome questi sono professionisti della politica vivono della politica. Questo può determinare la trasformazione del partito da “mezzo” in “fine” per la realizzazione dell’interesse generale e per sua propria sopravvivenza. Il problema del partito è che, soprattutto quando assume certe caratteristiche organizzative e di classe dirigente, da mezzo per il proseguimento dell’interesse generale, può diventare fine a sé stesso».
 
Salvatore Viglia/Italia Estera



 
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