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12 feb 2007OPINIONI: UNA PARTENZA SENZA RITORNO CON LE FOIBE NELL'ANIMA di Claudio Antonaz (Canada)

MELBOURNE, 12 FEB (Italia Estera) - Mio padre e mia madre portarono sempre nell'anima il lutto per la perdita della terra natia, dove non vollero mai più tornare neanche per una fugace visita.
Il loro atteggiamento categorico, irriducibile e il senso tragico che sempre ebbero nei confronti di tutto ciò che si riferiva alle terre adriatiche perdute sono stati per me un pegno doloroso che mi ha accompagnato per tutta la vita, anche in Canada, dove oggi risiedo.
Soprattutto mio padre non si riebbe mai più dal trauma del crollo del proprio mondo e degli inauditi atti di ferocia di cui furono vittime tanti suoi amici,  Pisino, ad opera dei "liberatori" titini. Questo fardello doloroso di memorie e di lutti è stato da loro trasmesso a me. Ed io non riesco a parlare di certe cose senza che il male che mi porto dentro non straripi attraverso tutto il mio essere. Perché non è facile scoperchiare la bara delle vittime, degli infoibati, degli sradicati per sempre, senza soffrire profondamente di nuovo.
Noi profughi istriani, fiumani e dalmati, vittime di una vicenda storica per
tanti anni ignota ai più - noi non abbiamo avuto il conforto che altri
conoscessero solo un po' la nostra storia - e vittime della nostra stessa
mitezza: noi non abbiamo mai espresso atti di violenza terroristica, neppure con bombe-carta o petardi di sorta. Se è impossibile trascorrere 24 ore negli Stati Uniti o in Canada senza imbattersi, una decina di volte, in notizie riguardanti l'Olocausto e il ruolo - storico e metafisico - di vittime degli ebrei, per noi è stato per tanti anni quasi impossibile trovare un interlocutore solo un po' attento e sensibile alla nostra vicenda di esuli giuliano-dalmati. Infatti, quando, sollecitato da qualcuno, avevo parlato della mia origine e un po' della nostra vicenda storica, avevo trovato nell'interlocutore, non di rado, perplessità, incredulità o addirittura ostilità. "Allora sei slavo...", era una reazione normale. I comunisti, poi, ci condannavano apertamente.
L'antipatriottismo, invalso in Italia per tanti anni, spiega queste reazioni.
Cosa volete, l'italiano è innanzitutto "uomo di partito". Il sentimento di
Patria gli è estraneo. In Italia ed al di fuori dell'Italia, il grottesco
manicheismo stabilito dai vincitori non può conferire altre patenti al di fuori di quella di carnefici, o di alleati dei carnefici, al campo dei vinti. Da ciò consegue che Tito, per anni, è stato visto come una figura leggendaria d'eroico combattente antinazista.
Noi eravamo un popolo di frontiera. Ciò spiega perché nel nostro parlare, nel nostro definire il gruppo e la "razza", il sangue conti poco. Ciò che conta sono i sentimenti. Dopo tutto la nostra gente è il risultato di svariati apporti "etnici". "È di sentimenti italiani", così tante e tante volte nella mia
famiglia si è stabilito che una certa persona, originaria delle nostre terre, e
che poteva essere confusa con gli slavi, era dopo tutto uno come noi: di
sentimenti italiani.
Il cuore non mente. I nomi sì. I cognomi cambiano: si slavizzano, si
italianizzano. si adattano. Ma sono i sentimenti dei nostri padri delle terre
irredente, è la cultura, è il nostro sentimento di fedeltà a sancire un'identità
perenne.
Se si dovesse giudicare dai nomi, allora tutti gli italiani con quei nomi sonori che finiscono quasi sempre in vocale sarebbero di "sentimenti italiani". Ma noi sappiamo che non è così. Lo sappiamo per aver imparato a conoscerli, e, diciamolo pure, per aver imparato anche a disprezzarli; blandamente però, accettandoli per quel che in maggioranza sono: voltagabbana, con un sentimento di patria astratto, distante, teorico, incerto; incerto per loro, ma non per noi, cui l'identità non è un dato anagrafico ma una scelta di destino nazionale nel bene e nel male.
L'Italia ufficiale, paese unico tra gli sconfitti della seconda guerra mondiale, celebra ogni anno la "liberazione", che ha visto i massacri delle foibe e l'amputazione del territorio nazionale. Le vittime dell'occupazione jugoslava, gli esuli, i vinti non hanno invece mai avuto bisogno di corsi di linguistica per capire la menzogna della parola "liberazione".
Sconfitta, esodo, perdita della terra natale. tali parole evocano negli italiani brani lirici, avvenimenti biblici, pagine di storia riguardanti popoli esotici.
La parola "esodo", per noi, non ha invece nulla di indeterminato, di vaporoso, di romantico. Esodo fu la nostra partenza di massa, con la perdita di una delle cose più preziose per l'uomo: il microcosmo che lo ha visto nascere e gli ha riempito l'anima di colori, suoni, sapori, che mai più ritroverà altrove.
Partenza, abbandono, radici spezzate, fedeltà, madrepatria. Le parole, finché non vengono vissute, sentite nella carne, non possono darci tutto quello che hanno dentro: dolcezze ineffabili o tremendi veleni.
Come passa il tempo. La Jugoslavia di Tito solo ieri dava lezioni politiche e morali al mondo intero. Non vi era foro sui problemi dell'umanità al quale l'uomo nuovo titoista non partecipasse per dare ammaestramenti con voce grossa ai meschini abitanti del resto del pianeta su come superare gli egoismi nazional-borghesi, e così accedere ad una nuova umanità, più aperta, più tollerante, più generosa.
Fa quasi pena ironizzare sui sanguinosi massacri che hanno accompagnato lo smembramento della Jugoslavia lungo le sue cuciture etniche, ma non è difficile immaginare lo stato d'animo di un profugo istriano come me, che per anni ha dovuto subire le incredibili menzogne jugoslave, avallate dai "progressisti" del mondo intero, primi fra tutti gli italiani. Questi ultimi stravedevano per le bandiere e le stelle rosse, mentre giudicavano che esibire i colori della propria bandiera costituisse una provocazione di stampo reazionario e fascista.
La tragedia della nostra gente si consumò, in quei lontani giorni, nell'assenza d'ogni segno d'attenzione, di solidarietà, di simpatia, e senza la presenza dei riflettori, delle telecamere e delle cineprese, che invece illumineranno a giorno e riprenderanno per le platee del mondo, i sanguinosi scontri tra le etnie jugoslave, anni dopo.
L'Istria si svuotò. Anche l'anima venne strappata ai luoghi. Lo sa così bene chi vi è tornato in visita: i luoghi non hanno più i loro Penati, i loro Mani, i
loro Lari, gli spiriti benigni custodi delle memorie. I morti ingoiati dalle
foibe sono morti per sempre. Forse è stata la superstizione balcanica di far
morire con gli infoibati anche un cane nero ad aver sortito il suo effetto.
Nessuno, niente più tornerà. L'estraneità dei luoghi fu suggellata per sempre in quei tragici giorni. I campioni di pulizia etnica, dopo tutto, seppero pulire a fondo.
La morte delle foibe segnò l'agonia e la fine di un popolo. Questa morte avvenne nell'isolamento, nell'indifferenza, nel silenzio. Fu una morte solitaria, senza funerali, senza segni di lutto, senza cordoglio, senza riti di passaggio. Fu una morte, appunto per questo, che non è mai stata esorcizzata. Una morte rimasta per sempre in molti sopravvissuti, come purtroppo ho potuto constatare nella mia famiglia, nei miei genitori, in me stesso.
Il capovolgimento del nostro mondo d'origine ha segnato anche il rovesciamento della verità di cui la nostra stessa vita è testimonianza irrefutabile: i "liberatori", acclamati come tali dall'umanità intera, sono stati dei carnefici: i nostri carnefici; i "progressisti", che per anni hanno appoggiato il "social engineering" condotto nei gulag dell'Est, sono stati i veri "reazionari".
È pur vero che i vinti hanno sempre torto. Ma questa volta ai vinti sono stati attribuiti tutti i torti dell'universo. E in più hanno avuto diritto ai lazzi e
agli sberleffi. La sconfitta della patria nella seconda guerra mondiale ha
fornito un inesauribile materiale umoristico alle meningi dei creatori italiani, che hanno prodotto una chilometrica sequela di film, libri, lavori teatrali, improntati alla parodia. Il paese di Pulcinella è ritornato alla sua vocazione antica, forse la sua sola vera, di popolo di saltimbanchi, di macchiette, di gente scaltra, esuberante, che sa divertirsi, e che per secoli ha fatto il tifo ora per un occupante straniero ora per l'altro.
La peggiore offesa postuma, arrecata a chi ha saputo morire con coraggio ed onore, come seppe morire mio zio Lino Gherbetti (nato Gherbetz), infoibato dai partigiani di Tito, è questo non poter concepire, oggi, in Italia, che vi fu chi, come lui e tanti altri, credette veramente al sogno di un'altra Italia: un'Italia disciplinata, seria, un'Italia normale, con un normale senso di dignità nazionale, dopo secoli di dominazioni straniere, e di imperialismi e di colonialismi armati, condotti attraverso il mondo da quelle potenze che si sono poi atteggiate ad implacabili giudici dei vinti e che hanno loro attribuito l'invenzione stessa della guerra.
Oggi, dopo decenni di martellamento e di spernacchiamenti contro l'Italia che fu, io stesso ho talvolta dei dubbi e mi chiedo se - dietro gli apparati, dietro una certa retorica e il pompierismo di certi protagonisti e di certe comparse che seppero trarre profitto da quel "sogno di gloria" - vi fosse vera sostanza, cioè gente con intenzioni sane, coscienze normali, sentimenti giusti. Ma poi mi basta pensare ai cosiddetti "fascisti" della mia famiglia e della cerchia dei miei parenti - gente pacifica, seria, onesta, umana, leale, ordinata, con un profondo senso di civismo e di solidarietà nazionale - e allora ancora più tragica mi appare la sorte di chi, ai confini, fu ingannato da quella speranza, e credette realmente in quel sogno, pagando poi di persona, anche con la vita, per quella che in fondo fu un'illusione...
Molti degli italiani del confine orientale vissero il sogno di una nuova Italia come qualcosa di serio, di nobile, di bello.
All'ordine e alla serietà erano stati educati dalla dominazione austriaca. Al senso dell'onore, al patriottismo, al desiderio di essere considerati in tutto e per tutto italiani, erano stati preparati da una lunga attesa, dal culto di Roma e di Dante... Da molto, troppo tempo questa gente attendeva la "redenzione", termine che non ha avuto mai nulla di retorico per i nostri padri perché sentimento vero.
Triste fu la sorte di tanti profughi che, come i miei genitori, dopo il
naufragio, rimasero, nonostante tutto - perché nasconderlo? - fedeli a quell'illusione così vicina alla loro natura più intima, e continuarono a mettere in pratica quotidianamente gli ideali d'ordine, autodisciplina, onestà, serietà, solidarietà nazionale, patriottismo. E non avrebbero potuto far diversamente, perché non tutti cambiano natura cambiando geografia.
 
Noi rechiamo nell'intimo l'impronta austriaca. Oggi riconosciamo volentieri questa filiazione. E dire che l'impero asburgico e il suo imperatore furono dai nostri padri tanto avversati. Il "ribaltone", l'esodo, la vita a contatto con gli altri italiani hanno però riabilitato il nostro nemico di allora: Vienna e
il suo impero. La riabilitazione è coincisa con il nuovo significato che noi stessi diamo oggi a certe parole; "Roma" per esempio, che tanto ci aveva ispirato e fatto sognare. Oggi la parola Roma, purtroppo, perché simbolo di fanatismo partitico, di corruzione e di demagogia, e non di unità nazionale, ha per noi un po' la stessa connotazione negativa che ha per Umberto Bossi.
Il culto della menzogna comunista così diffuso per anni in Italia, con la beatificazione in blocco degli "antifascisti", assassini d'innocenti compresi, ha fatto sì che delle foibe si sia cominciato a parlare un po' solo dopo la caduta del Muro. Il profondo antipatriottismo che caratterizza gli italiani spiega anche perché questi abbiano per più di mezzo secolo volto le terga alle foibe. Oltre tutto gli jugoslavi avevano combattuto valorosamente contro i soldati di Hitler. E i "liberatori" erano tutti dalla parte del bene. Le loro vittime sono diventate quindi, "ipso facto", dei fascisti, questa specie
subumana, responsabile dell'Olocausto, il solo, il vero, quello con l'O
maiuscola. Essi hanno meritato il proprio calvario, e i discendenti delle vittime, lungi dall'avanzare crediti morali verso chicchessia, dovrebbero stare quindi attenti a come parlano! Di Olocausto ce n'è uno solo, e guai ad abusarne il nome... L'accusa di antisemitismo viene lanciata per molto di meno ed è un'accusa che fa danni irreparabili. Chi parlava dei morti della foiba di Basovizza, fino a non molto tempo fa rischiava l'accusa di voler minimizzare la Risiera di San Sabba. Il Presidente più amato dagli italiani, Pertini, non fece mai pericolose confusioni circa i martiri "Doc". Quando andò a Trieste volle commemorare le vittime della Risiera di San Sabba, ma non le vittime delle foibe.

Non si può capovolgere il lieto fine della seconda guerra mondiale. Alla belva è stata piantata un'asta d'acciaio nel cuore. Ci mancherebbe altro che si cercasse ora di dar voce ai morti delle foibe, che si rivelasse il martirio dei vinti, ricordando la tragedia degli stessi civili tedeschi, bambini compresi, espulsi, violentati, massacrati. Non confondiamo i cattivi con i buoni. Non confondiamo i morti innocenti... Ai Finzi Contini i loro giardini, sempre al centro della produzione letteraria e cinematografica del mondo intero in un crescendo di cui non si intravede la fine. Silenzio assoluto invece per più di mezzo secolo sui nostri orti dell'Istria, sulle nostre case di pietra occupate da altri, e sullo sradicamento che è stato la peggiore tragedia che poteva toccare a noi, popolo non nomade ma profondamente attaccato alla terra, e popolo di una sola patria.
La rinuncia forzata alla terra natale è la perdita di un qualcosa
d'insostituibile che aiutava a dar senso all'assurdità della vita. Di qui un sentimento di "destino mancato" che hanno tanti esuli, soprattutto quelli che vivono all'estero.
I quebecchesi piangono una sconfitta subita quasi trecento anni or sono. Gli ebrei piangono un esodo avvenuto un paio di millenni fa. Vi sono stati dei giovani canadesi, australiani, americani, di genitori croati, che sono andati a combattere, a uccidere e a morire, nella nuova Croazia in guerra con la Serbia (cosa che io stesso giudico eccessiva, anche perché, nella mia concezione del patriottismo, alla terra in cui si nasce sono dovuti amore e lealtà). La sconfitta in Giappone causò suicidi di massa. Molto diffuso tra gli americani è il culto dell'onore nazionale. Io non voglio giustificare certi eccessi che nascono dal culto della patria e dell'onore nazionale, ma semplicemente dire che quando paragono il mio patriottismo, il mio senso di lutto per la tragedia della Venezia Giulia e della Dalmazia al senso spasmodico d'identità etnico-religiosa, al vittimismo, al senso di esclusione verso gli altri, e al culto di un passato plurimillenario che hanno gli ebrei, io non posso non considerarmi un tiepido, un moderato, un "laico" . E lo stesso mi succede quando raffronto il mio senso guerriero a quello di ceceni, serbi, croati, irlandesi, baschi, corsi, sciiti, sunniti.

Nell'analizzare le cause del mio sentirmi "esule", mi rendo conto che le vicende personali, familiari hanno contato non poco nel far di me ciò che sono, e soprattutto di quanto abbiano influito i miei genitori, con l'esempio della loro coerenza, del loro coraggio, e della profondità dei loro sentimenti d'amor patrio e, naturalmente, anche con il loro bagaglio genetico. E scavando, scavando, mi accorgo che il mio senso di alienazione e di perdita deriva in parte da un disagio esistenziale che ha tra le sue cause, probabilmente, anche l'educazione ferrea ricevuta da un padre troppo duro con suo figlio, timido e sensibile, e il mio mancato radicamento "geografico", dovuto ai continui cambiamenti di luogo, sia in Italia che all'estero. Ma, alla base di tutto, io vedo le foibe, l'odio tribale slavo, la sconfitta dell'Italia, la tragedia dell'esodo, lo sradicamento, i campi profughi, la dispersione della nostra gente, l'eterno rimpianto dell'Istria, il lutto per l'onore perduto, e il senso di nausea per il conformismo antipatriottico e il filocomunismo di larghi strati della popolazione dello stivale come le cause dirette dei sentimenti miei di tutta una vita.

L'antipatriottismo, l'opportunismo e il filocomunismo di larghi strati in Italia sono stati la causa diretta, se non altro, della mia decisione di emigrare. Adesso può far sorridere il pensiero che vi fosse gente in Italia, allora, che temeva - come sempre lo temettero i miei genitori - il ripetersi del "ribaltone", quale lo avevano già conosciuto in Istria.
Essere profughi giuliani, essere fermamente anticomunisti non era certamente un titolo di merito nell'Italia che espresse il terrorismo delle Brigate Rosse e il diffusissimo fenomeno degli utili idioti e dei radical chic che esaltavano la Jugoslavia di Tito, non solo, ma la Cina di Mao e la Cambogia di Pol Pot.

Gli studi consacrati alle vittime di avvenimenti collettivi tragici constatano che queste rimangono afflitte da un senso di solitudine, quando tali pagine sanguinose di storia non sono conosciute dall'opinione pubblica. Il non riconoscimento e l'indifferenza altrui impediscono che si consumi il processo rituale di cordoglio, necessario ad ogni guarigione.
Il fatto stesso che gli altri italiani siano così diversi da noi sembrerebbe indicare che il nostro dolore sia frutto di una sensibilità esagerata. Il dubbio che le nostre reazioni agli avvenimenti siano sostanzialmente dovute all'eccezionalità del nostro essere emerge per contrasto di comportamenti e di sensibilità tra il nostro patriottismo e la totale indifferenza, per mezzo secolo, della stragrande massa degli italiani alla tragedia dell'esodo. È una
caratteristica soprattutto italiana questo non far coincidere il proprio destino con il destino della patria. La sensazione del disagio-dolore unico, incomunicabile, impedisce il conforto che deriva dalla convinzione che gli altri possano capirci.
Tutto è andato nel peggior dei modi, in maniera beffarda. La Jugoslavia è stata acclamata per decenni come una terra promessa dai nostri progressisti. La vita in Italia è stata dominata dal filocomunismo e dall'opportunismo più cagone. Noi profughi siamo stati ignorati, oppure considerati moralmente come dei nazifascisti. L'avversione del comunismo ha impedito a molti di noi di restare in Italia. Ma, anche all'estero, nei consolati italiani risultavamo "nati in Jugoslavia".

Poi i buoni e magnifici vicini dell'est si sono scannati. E, che Dio mi perdoni, solo questo mi è apparso come un ritorno alla verità delle cose. Il sangue è ripreso a scorrere. Le foibe hanno ripreso la loro funzione balcanica di carnai comuni. Per noi, infine, le cose hanno ripreso il loro senso. Le nuove morti e il nuovo sangue ci hanno dato ragione.

E finalmente, oggi, la nostra tragedia è stata riconosciuta. Le tante iniziative a nostro favore intraprese dal governo di centro-destra, tra le quali il "Giorno del Ricordo", su iniziativa dell'On. Menia, e i francobolli per onorare l'italianità delle terre perdute, dovuti all'On. Gasparri, hanno messo fine all'indifferenza e al silenzio nei nostri confronti. Anche l'attuale presidente della repubblica Giorgio Napolitano, ex comunista, ha fatto un sentito, ammirevole "mea culpa" circa il silenzio che ha avvolto per troppo tempo, in Italia, il dramma delle foibe.
 
Ma questi riconoscimenti giungono troppo tardi per i miei genitori e per tantissimi altri che sono morti lontani dalle amate terre, dopo mezzo secolo d'indifferenza. Né possono dissipare in noi l'amarezza di tutta una vita. Immaginiamo per un attimo che nessuno conoscesse della persecuzione nazista subita dagli ebrei. Come dovrebbero allora sentirsi coloro che direttamente la patirono o le cui famiglie in una maniera o nell'altra la subirono? Certo, il paragone con gli ebrei è estremo, probabilmente eccessivo, ma permette comunque di far capire agli altri che il non riconoscimento di un esodo, di una persecuzione, di una tragedia collettiva è stato fonte, per troppi anni, di solitudine e di amarezza per i sopravvissuti.

Claudio Antonaz (Canada)/Italia Estera



 
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