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09 ott 2006CALCIO: La strada per gli Europei resta dura per una nazionale che una sua identità ancora non ce l’ha – di Fabrizio Piccolo

Servizio di Fabrizio Piccolo
ROMA,  9 OTT.  L’ultima vittoria dell’Italia al 90’ era stata proprio contro l’Ucraina, in Germania: quel 3-0 che ci spianò la strada verso il trionfo di Berlino, ma il 2-0 dell’Olimpico contro una squadra peraltro orfana di Shevchenko non deve illudere nessuno. La strada per le qualificazioni agli Europei resta dura e la vittoria della Scozia sulla Francia non è – come molti credono – una bella notizia, anzi. Un avversario in più da scavalcare Nella foto Roberto Donadoni  (Infophoto)per una nazionale che una sua identità ancora non ce l’ha. Dell’appagamento mondiale si è detto e scritto (ma i paragoni con l’Italia bearzottiana che non superò le qualificazioni dopo il Mundial spagnolo non regge, quella squadra giocò bene, andatevi a rivedere le partite contro Cecoslovacchia e Romania dell’82-83), delle indecisioni di Donadoni meno. Che l’eredità di Lippi avrebbe messo in difficoltà chiunque è acclarato, che l’ex tecnico del Livorno abbia gestito al meglio questi primi mesi da ct anche. Oggetto delle critiche due aspetti su tutti: le convocazioni ed il modulo. Se Lippi aveva fatto del gruppo forte la sua prima ricchezza, Donadoni è riuscito in poco tempo a sgretolare la regola. Partito con un nugolo di esterni (da Semioli a Marchionni, prima goffamente escluso nella prima amichevole con la Croazia e poi richiamato) e con il rilancio di Cassano presto il ct ha fatto marcia indietro, bocciando alla rinfusa idee e giocatori. La rinuncia a Giardino è l’aspetto più grottesco di questo modo di gestire la rosa, così come l’immediato dietrofront su Cassano, oltre che figlio di una geopolitica da abolire (rischioso utilizzarlo in un Olimpico ostile), sa di scarsa chiarezza di idee. Il capolavoro del ‘ruffianesimo’ Donadoni l’ha toccato assegnando la maglia numero 10 – in assenza di Amleto-Totti (torno o non torno, questo è il problema?) a De Rossi, idolo di casa, e non a Del Piero (che sarebbe stato fischiato dal popolo-bue). In Georgia l’unico risultato che serve è la vittoria, e stavolta anche senza spettacolo (tanto difficilmente arriverà). Conta vincere e, vista l’aria che tira, anche con il maggior scarto possibile. Poi in casa ci giocheremo le nostre chances contro Francia e Scozia. A proposito di casa è tornato tristemente d’attualità il tema: diamo una casa alla Nazionale. Il Coni, spalleggiato da qualche politico in astinenza da sovraesposizione mediatica, spinge per regalare l’Italia a Roma, indicando nell’Olimpico la sede fissa della nazionale. Idea vecchia e sempre sbagliata. L’Italia non è l’Inghilterra o la Francia, dove il senso di Patria esiste da sempre e non si aspetta un Mondiale vinto per essere nazionalisti o per imparare (a fatica, non senza momenti di imbarazzo in mondovisione) l’inno. L’Italia è terra di comuni, di campanili, di cortili e di vicoli. Non siamo italiani quasi mai, piuttosto romani (‘aò dacce Totti e nun fa giocà Cassano’), fiorentini (‘o bischeri, noi i gobbi li fischieremo sempre’), livornesi da falce e martello da esporre sugli spalti, palermitani riottosi (‘Toni tradisti per li picci’), napoletani-non napoletani-rossogialloverdazzurri e quant’altro. Fischiamo il nemico di bottega anche se ha la maglia dell’Italia e – come ha sottolineato Buffon – anche e soprattutto Roma non si esime da questo malcostume. No, l’Italia non può avere la sua Wembley, e tantomeno può essere Roma, capitale del provincialismo. Meglio girare la Penisola, magari andando nei paesi meno inquinati dall’anti-tifo, dove ci si commuove davvero all’inno o dove si tifa per quei ragazzi in azzurro senza pensare a quale maglia di club indossano la domenica.
Fabrizio Piccolo/Italia Estera



 
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