di Mario Sista
ROMA, 25 MAR, (Italia Estera) - Ha suscitato molte polemiche la recente dichiarazione di Papa Benedetto XVI relativa all’uso del preservativo. In Africa, è a tutti noto, i malati di AIDS sono milioni. Milioni sono anche i cattolici ai quali il Pontefice si è rivolto nell’offrire il suo pensiero riguardo a questo tema. Non è nuova la questione secondo la quale per la gerarchia della Chiesa cattolica il condom risulti essere un mezzo illecito nell’ambito dell’uso della sessualità umana. A tal riguardo già si era pronunciato Giovanni Paolo II. Ci si chiede, piuttosto, se una tale riproposizione della dottrina tradizionale possa essere confacente a quella che è la realtà africana, totalmente diversa da quella occidentale. Una realtà dove la malattia sta in agguato dietro l’angolo e che inficia i rapporti coniugali nella loro essenza più intima.
Certo, Benedetto XVI fa bene a dire che “il preservativo non risolve il problema dell’AIDS”, in quanto per sconfiggere un tale nemico c’è bisogno di ben altro: ricerca, cure, impegno delle case farmaceutiche non in vista di lucro, vicinanza materiale e morale ai colpiti. Ci si chiede però se vietarne l’uso sia una soluzione giusta. Pensiamo ad esempio ad una coppia cattolica africana in cui uno dei coniugi è malato di AIDS e l’altro no. Ora, secondo la dottrina cattolica uno dei fini del matrimonio è il bonum coniugum, il bene cioè dei coniugi. Due persone, cioè, si sposano per il loro bene morale, fisico e materiale. Si sa, poi, quanto la sessualità coniugale, raccomandata dalla stessa Chiesa all’interno del matrimonio, sia importante per il raggiungimento di questo bene coniugale.
Una sana vita sessuale all’interno del matrimonio cementifica, dona dignità e rafforza l’unione. Ora, dando per buono il fatto che il preservativo sia un ottimo mezzo che impedisca il diffondersi del virus, ci si chiede allora se, in vista della preservazione e del raggiungimento almeno del bonum coniugum (visto che l’altro fine, la procreazione, è inficiato dall’AIDS), esso possa essere permesso fino a quando la medicina non abbia trovato una cura per sconfiggere questa malattia. Sarebbe ingiusto, almeno a mio parere, condannare due coniugi alla castità sessuale assoluta, che non appartiene assolutamente alla natura intrinseca del matrimonio. Il preservativo, allora, che pure rimarrebbe discutibile dal punto di vista morale cattolico, ma non entro in merito a questa questione, diventerebbe nell’esempio riportato, un mezzo che assicuri, in vista di una soluzione definitiva del problema, almeno l’intimità cui una coppia, per sua natura, deve vivere e condividere in vista del suo bene. Ovvio che, nel caso in cui il preservativo non proteggesse in maniera adeguata la salute della parte coniugale sana, tale mezzo sarebbe da non prendere assolutamente in considerazione. Non si è di fronte ad un machiavellico “il fine giustifica i mezzi”, bensì ad una tragica realtà in cui, seppure una coppia è stata dalla vita segnata dalla malattia, almeno si preservi in essa ciò che si può, e credo che l’intimità e l’unione dei corpi, l’essere “una sola carne”, come riferisce a tal riguardo il libro della Genesi, seppur in maniera non completa, potrebbe e dovrebbe essere tutelata.
Mario Sista / Italia Estera