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15 gen 2008AFGHANISTAN :” Le feste di matrimonio sono gli unici momenti di gioia a Kabul”

Viaggio di Stefania Martuscelli, presidente di Minerva Donne, nella capitale del terrore e della miseria

di Alfonso Maffettone
NAPOLI, 15 GEN, (Italia Estera) – “Le feste di matrimonio per le quali gli afghani sono pronti a indebitarsi fino all’osso sono l’unico momento di gioia a Kabul” dice Stefania Martuscelli che è appena rientrata da un viaggio di dodici giorni nella capitale dell’Afghanistan. La città è ripiombata, dopo alcuni anni di speranza, nella morsa della paura e del terrore per gli attacchi e gli attentati suicidi dei Talebani tornati forti e più feroci di prima. Decenni di conflitti e violenze tribali hanno lasciato sul suolo afghano un milione e mezzo di morti e 640 mila mine , antiuomo e anticarro. La recrudescenza delle ostilità ha causato ben settemila vittime lo scorso anno ed il numero è destinato ad aumentare nel 2008. 
 
In una intervista esclusiva ad Italia Estera, Stefania Martuscelli,  presidente di Minerva Donne, un’associazione che si batte contro la corruzione politica,  parla  del clima di guerra che esiste a Kabul nonostante la sete di pace e di vita degli afghani. Il suo è stato un viaggio in uno dei paesi più arretrati e martoriati del mondo e per il quale l’ Italia e tutto l’ Occidente sono impegnati in un grande sforzo di ricostruzione e modernizzazione. Un contributo che ha fatto diventare gli occidentali  obiettivo del terrorismo dei Talebani che vogliono riprendere il dominio nel Paese ed imporre di nuovo la loro spietatata dittatura. Nel pieno centro della capitale l’unico albergo a cinque stelle, il Serena, frequentato da stranieri, è stato assaltato da un commando suicida talebano. Sei le vittime fra le quali un americano, una donna francese ed un giornalista norvegese.
 
Quali condizioni di vita ha trovato in Afghanistan? Chiediamo a Stefania Martuscelli
“Mitra spianati ogni pochi passi; filo spinato che circonda gli edifici pubblici e le residenze , grandi blocchi di cemento a fare da barriere contro eventuali autobomba e attentati dinamitardi. Ma l’accoglienza è  calorosa. L’impressione che se ne ricava è che ti siano quasi grati del tuo arrivo. Gli afghani  ti sorridono dovunque”.
 Dunque emergenza ?
“Una sera ci siamo arrischiati ad andare a cena in un ristorante. La parola “ristorante” è un eufemismo. Niente insegna, niente luci, solo una fioca candela sulla strada, davanti a una catapecchia di lamiera, dove si arriva con l’auto per strade buie, fangose e deserte. L’insicurezza è la connotazione fondamentale dell’esistenza. Non intesa come l’assenza di sicurezza del mondo occidentale, che ti impedisce di svolgere serenamente una vita consumistica e vuota, ma è l’insicurezza della tua autonomia e libertà di organizzazione dei gesti quotidiani. Fanno eccezione le feste di matrimonio una volta abolite dai talebani ed ora di nuovo in auge. Gli afgani, uno dei popoli più poveri del mondo, sono disposti a pagare cifre enormi per le loro possibilità perchè il ricevimento di nozze è status simbol”.
Se un occidentale vuole farsi quattro passi per le strade di Kabul?
“Chicken street è come il frutto proibito, qui a Kabul, per tutti gli stranieri.
Ogni ambasciata raccomanda di non andarci, ma poi, alla chetichella, tutti ci vanno.
Ci sono, naturalmente, andata anch’io. E’ una strada fangosa e piena di buche, ma è l’unica in cui è possibile fare, usando un eufemismo, un po’ di shopping”.
 
E gli afgani come reagiscono ?
“La presenza di un occidentale viene immediatamente percepita, seguita e monitorata. Lasciato un negozio, sono capaci di ritrovarti, anche dopo un bel po’ di tempo, in una stradina adiacente dentro un altro negozio. A Chicken street è tutto un pullulare di umanità, un andirivieni di giovani, vecchi, bambini senza alcuna forma di vivacità, ma quasi, oserei dire, di disperazione impietrita. Molti sono i bambini che ti chiedono l’elemosina.
In questa strada, però, non si può andare più di una volta. Andarci due volte, come ho fatto io, diventa già una forte imprudenza. Si è identificati, si può divenire un bersaglio facile dei talebani ( che pur circolano in città) per un eventuale rapimento. Uno dei tre italiani rapiti nell’ultimo triennio passeggiava proprio in questo quartiere”.
Ma se si vuole socializzare con la gente?
“I ritmi di vita qui sono lenti. La situazione di pericolo impone di essere guardinghi. Ogni uscita, ogni azione va meditata, ponderata: alla fine, se si valuta che la percentuale di imprevisto negativo è accettabile, si procede.  Così vado in una casa nel quartiere di Hazara. Ci sediamo per terra in circolo con le gambe incrociate e ci offrono frutta secca e fresca, oltre al loro tè, dal colore giallo. Dico che ho letto tutto il Corano e mi accorgo che ciò mi fa sentire a loro meno estranea. Cerco di dire cose che possano essere gradite, perché sento che la nostra presenza lì è sentita come un grande onore. Mi mortifico, vorrei fare di più.

E mentre anche gli altri conversano con pause necessarie alla traduzione, penso che sarebbe così facile entrare in sintonia tra i popoli, se tutti mettessero, come codice di comunicazione, il proprio cuore e la propria umanità. Ci hanno offerto povere cose ma probabilmente nei prossimi giorni si priveranno del loro cibo”.
 
Ha avuto contatti con gli altri italiani?
“Alberto Cairo a Kabul  della Croce Rossa internazionale. Alberto ha costruito un enorme ospedale- scuola-laboratorio tecnico, che accoglie circa 7.000 pazienti all’anno, disabili e vittime di guerra o delle mine. Parte della struttura è una grande officina, dove i disabili vengono inseriti nei cicli produttivi e  producono mani, piedi, gambe o giunture e lavorano con grande serenità. Ci  hanno accolto con amicizia e mostrano le loro amputazioni con un sorriso. Alberto ci ha presentato, tra gli altri, un giovane, che ha avuto amputati dai talebani sia la mano destra che la gamba sinistra, perché accusato di furto: ora lavora con gli altri e sorride. E’ questo il miracolo di Alberto: avere trasformato un ospedale in una fabbrica, un posto di dolore in un posto di gioia,  in una vita attiva ed utile.
Le organizzazioni umanitarie che ho visitato si tuffano in questo mare di disperati con generosità incredibile. E come non ricordare le suore di Maria Teresa di Calcutta che, senza alcuna protezione, vivono in un quartiere poverissimo e stavano per essere rapite dai Talebani!”.  
-E Le donne afghane?
“Sono rarissime nelle strade. Non possono uscire se non sono accompagnate dagli uomini. Solo una su cinquanta è senza burqa. I loro burqa sono di due lunghezze sul davanti, una fino ai piedi e una sotto la vita. Mi spiegano che la prima lunghezza era imposta dai talebani, ora, invece, vi è una certa tolleranza e la lunghezza sul davanti si è accorciata e, a volte, si può anche scoprire il viso, ripiegando il burqa all’indietro.
Ho cercato fugacemente di guardare, attraverso la rete dei loro burqa, se si intravedono i loro occhi o, almeno, lo scintillio di uno sguardo.Nulla. Dietro la rete glicine c’è solo un buio pesto e senza fondo, che contrasta con il colore del burqa. Mi chiedo: di che colore sarà il loro animo? Nero come quel pozzo senza fondo che appare all’esterno o color glicine come quello del burqa? Mi rispondo, forse per consolarmi, che probabilmente sono felici così, proprietà privata del loro uomo, in cui trovano  la ragione della loro identità e collocazione sociale. Sono felici, forse, perché non sanno cosa c’è oltre il loro burqa o, sono felici, per quella sindrome psicologica che lega di sentimenti affettuosi il carceriere e il carcerato.
Un velo di tristezza mi prende quando rifletto un attimo, come in un flash, sulla mia vita di donna occidentale: libera, lavoratrice, impegnata nel sociale. Tutte ricchezze nella vita e nell’animo, che loro, le donne musulmane, non possono provare”.
Alfonso Maffettone/Italia Estera



 
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