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30 lug 2006SULLE ROTTE DELL’AMERICA LATINA - Servizio di Gerardo Severino

Il ruolo del Cile in favore dell’Italia post bellica
 
Servizio di Gerardo Severino
 
ROMA, LUGLIO (Italia Estera) - Dell’emigrazione italiana nel mondo - nell’America Latina in particolare - se ne parla spesso e, quasi esclusivamente, in chiave encomiastica, per decantare i soli meriti di quei tanti italiani che hanno contribuito a rendere grandi i Paesi che li hanno accolti.
Quasi mai, invece, viene evidenziato il ruolo - molto spesso determinante - che gli stessi Paesi hanno avuto in favore dell’Italia, soprattutto in contesti storici nei quali la nostra Nazione si è trovata sconvolta da profonde crisi economiche e da contrasti interni.
Una delle peggiori situazioni vissute dall’Italia si verificò, in maniera preponderante, dopo la fine della 2^ guerra mondiale, allorquando la Nazione, sventrata nel suo territorio e minata negli animi della gente, dovette fare i conti con una diffusa povertà, una crescente disoccupazione e, soprattutto, dalle frequenti lotte politiche. In tale contesto, lo squilibrio tra la popolazione e la carente capacità produttiva, peraltro aggravato dal rimpatrio di 237.000 coloni italiani dai territori africani e da quelli d’occupazione, nonché dall’afflusso di circa 200.000 profughi istriani, contribuì, unitamente ad alcuni fattori politici e morali, a riacutizzare la tendenza verso l’espatrio. Le mete preferite furono soprattutto le Americhe, le ancora lontane Americhe, raggiungibili solo via mare, anche se con viaggi più confortevoli rispetto al passato. Disciplinati dalle regole fissate dalla Direzione Generale per l’Emigrazione del Ministero degli Esteri, gli espatri ebbero luogo prevalentemente da Genova e Napoli, i cui porti avevano assistevano ad esodi di massa sin dalla fine dell’Ottocento. Secondo le statistiche sull’emigrazione, nel periodo 1946-1954 partirono dall’Italia verso i paesi d’oltremare ben 989.227 emigranti, provenienti per lo più dalle regione meridionali, e diretti soprattutto verso l’America Latina. Nel 1949 fu addirittura raggiunto il 77,9 %, con la partenza di ben 155.061 persone. Fra i Paesi del Sud America ove gli italiani “cercarono scampo” dalla miseria, oltre ai noti Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela, merita particolare menzione anche il Cile, il grande Paese andino ove la colonia italiana era fra le più antiche, risalendo al periodo dei conquistadores. Il fenomeno migratorio verso il Cile ebbe inizio a partire dal 1945, anche se molto contenuto rispetto ai Paesi vicini (soprattutto l’Argentina) ed a quanto avverrà due anni dopo, con il raddoppio degli ingressi. Tale aumento fu strettamente connesso con la Presidenza (1946-1952) del radicale Gabriel Gonzales Videla. Assurto alla massima carica del Paese il 3 novembre 1946, Gonzales fu il promulgatore di una progredita legislazione sociale, dalla quale scaturì una maggiore democratizzazione del Cile ed un conseguente progresso economico. Le migrazioni aumentarono di poco nel corso dei primi anni ’50, e furono regolate meglio grazie agli accordi intercorsi con il Governo cileno, così come prevedeva la legge italiana sull’emigrazione varata nell’agosto 1950. A favorire l’ingresso in Cile dei nostri connazionali intervenne, quindi, anche la crescente richiesta di mano d’opera qualificata, impegnata nella rinascita urbanistica delle principali città, ma soprattutto nel settore industriale. L’edilizia cilena, guidata da grandi architetti ed ingegneri, alcuni dei quali latori delle esperienze maturate in Italia, America, Germania e Gran Bretagna, fece in quel periodo passi da gigante, tali da trasformare il Paese in una realtà moderna ed all’avanguardia, specie rispetto ad altre realtà Sud Americane. In ambito industriale, moltissimi furono gli italiani assunti dalle varie fabbriche, molte delle quali sorte per effetto del programma di “riconversione” economica. Il declino delle esportazioni di nitrato, dovuto al sempre più crescente utilizzo di prodotti sintetici, ed il ribasso dei prezzi del rame (i due prodotti base dell’economia cilena) sui mercati mondiali, aveva, infatti, determinato una nuova scelta di campo del Governo cileno, che identificava nell’industrializzazione la principale via d’uscita. A causa della crisi che serpeggiava nel settore minerario, alla quale si affiancarono non poche agitazioni sindacali, fu scarsissimo l’impiego di mano d’opera italiana negli insediamenti per l’estrazione del nitrato sodico, del rame e dei minerali di ferro. Gli italiani dimostrarono un particolare interesse verso le fabbriche, specialmente quelle operanti nel settore tessile, dei quali l’Italia era stata notoriamente uno dei Paesi precursori. Operai qualificati furono, quindi, adibiti alla lavorazione della lana nazionale e del cotone d’importazione, ma anche nella produzione della seta. Altri italiani furono, invece, impegnati nel comparto marittimo, sia esso quello della pesca e della conservazione del pesce che della cantieristica navale. Fra i Paesi più pescosi del mondo, il Cile diede la possibilità agli italiani di dedicarsi alla redditizia caccia alle balene, per la quale furono armate numerose barche nel porto di Corral, ma anche nella pesca dei molluschi e crostacei, di cui erano ricche la Baia di Ancud ed il Golfo di Quetalmahue. Sul fronte delle costruzioni navali, i nostri connazionali portarono in Cile molte delle tecniche maturate in Patria, soprattutto in fatto di siderurgia navale. Molti italiani che, prima della guerra, avevano lavorato nella cantieristica civile e militare, contribuiranno, infatti, alla crescita del cantiere navale di Valdivia, che già negli anni ’50 era capace di impostare navi di 3000 tonnellate lorde, ma anche a quella degli altiforni di Corral, dal quale si alimentavano i numerosi cantieri. Importante valvola di sfogo per gli emigranti italiani fu anche il settore petrolifero, che a partire dal 1949 iniziò ad estrarsi dai giacimenti scoperti a Punta Delgada, presso l’entrata dello Stretto di Magellano e nella Terra del Fuoco, presso Cerro Manantialies. Fra i tecnici e gli operai della grande raffineria di Concon, gli italiani acquisirono tecniche e conoscenze che in seguito saranno utili allorquando l’Italia riattivò il suo programma di ripresa energetica. Si segnalano, infine, i tanti connazionali impegnati nei cementifici, nei calzaturifici, negli stabilimenti di concia ed in quelli del confezionamento delle carni e negli zuccherifici. Più scarsa la partecipazione alle altre attività economiche, quali l’agricolo-pastorale, forestale ed agricola, anche se in questo ultimo caso vi furono non poche famiglie, per lo più trentine e venete, che raggiunsero le principali estancias del Paese.  A queste “prime generazioni” d’emigranti italiani approdati in Cile dopo la fine della 2^ guerra mondiale, ne fecero seguito altre, almeno fino agli anni ’60. I figli dei primi italiani trapiantati in Cile sono ormai cileni a tutti gli effetti:  cileni dal sangue italiano che operano ormai in tutti i settori della vita nazionale del bellissimo Paese latino-americano. Ma se è vero, come è vero, che gli italiani hanno dato tanto al Cile è pur vero che anche il Cile ha dato tanto agli italiani, e non solo a quelli che vi si sono stabiliti. Anche le cosiddette “rimesse” (risparmi), che gli italiani inviavano dal Cile in Italia, contribuirono a quella ricrescita economica e morale alla quale il nostro Paese tese  in oltre un decennio di storia repubblicana. E’ per questo motivo che, nel ricordare una pagina di vita italiana, riteniamo doveroso ringraziare il Cile per aver accolto a braccia aperte i tanti  italiani che sbarcarono silenziosamente a Valparaiso, portando con se la nostalgia della Patria lontana, ma soprattutto la voglia di vivere e lavorare per una nuova Patria.

Gerardo Severino/Italia Estera




 
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