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24 apr 2006Simboli d'appartenenza

In una mostra al Vittoriano  gli oggetti, le opere d'arte, i reperti, le foto e le musiche che ci fanno provare l'orgoglio di essere italiani
Antonio Canova, L'Italia nel monumento a Vittorio Alfieri  ROMA, 24 APR. (Italia Estera) - La bandiera, naturalmente: il Tricolore battezzato nel 1797 dalla Repubblica Cisalpina, adottato poi da Carlo Alberto nel 1848 come vessillo da esibire nei campi di battaglia della Prima guerra d'indipendenza: in tutte le sue versioni risorgimentali. Poi l'inno nazionale, scritto da un giovane patriota, Goffredo Mameli, che sarebbe poi caduto sulle trincee della Repubblica romana nel 1849. Ma anche le canzoni struggenti che i nostri emigranti cantavano con il cuore gonfio di nostalgia. E le foto dei trionfi nei Mondiali di calcio degli anni Trenta e del 1982 (con le maglie originali di Meazza, di Paolino Rossi e di Zoff); le immagini indimenticabili di Coppi e di Bartali sulle strade polverose del dopoguerra. E, ancora, gli ex voto (c'è anche quello, massiccio e imponente, degli scampati alla tragedia del dirigibile Italia); le pubblicità dei primi del Novecento (una, stupenda, del 1912, raffigura Dante Alighieri che mostra una macchina da scrivere Olivetti); le immagini sacre di San Francesco d'Assisi e Santa Caterina da Siena, «Patroni Primari d'Italia»; le foto ottocentesche delle nostre città, dei santuari, delle campagne, delle vette alpine; i francobolli celebrativi; le banconote e le monete del vecchio conio (cioè, le lire irrecuperabilmente fuori corso). Le vignette satiriche, le cartoline, le foto dei soldati nel fango delle trincee nella Prima guerra mondiale; i quadri risorgimentali e quelli futuristi, ma anche le Piazze d'Italia di Giorgio De Chirico.
Qual è il fil rouge che collega queste opere e questi oggetti, esposti - tutti insieme - al Vittoriano? L'appartenenza. Sono tutti simboli dell'appartenenza all'Italia. Ci sentiamo italiani rivedendo - congelato dall'obiettivo di un fotografo - il gol di Gianni Rivera che fissò nel definitivo 4-3 quell'indimenticabile vittoria sulla Germania, in Messico, nel 1970. Ci sentiamo italiani davanti alle bandiere, quelle gualcite, o strappate, recuperate in altri Musei sparsi nella Penisola. Ci sentiamo italiani, persino, guardando i costumi antichi di Arlecchino o Pulcinella, le maschere della nostra infanzia, che sono anche le maschere della nostra storia nazionale.
Una volta - nel 2001 - Carlo Azeglio Ciampi disse: «C'è un bisogno di Patria che unisce giovani, adulti e anziani. Ne è viva testimonianza il successo di tutte le iniziative che promuovono il recupero della nostra storia, della memoria che è in ogni famiglia, in ogni paese, in ogni città d'Italia. Tutto ciò è motivo di fiducia e di speranza».
Dal 2 giugno - e fino al 18 settembre prossimo - il Vittoriano, a Roma, ospita una mostra che s'intitola, appunto, Simboli d'appartenenza, e che raccoglie i reperti che abbiamo elencato. E tantissimi altri. È stato proprio il Presidente della Repubblica a voler anticipare le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'Unità Nazionale (che cadrà nel 2011) con un progetto dedicato alla memoria complessiva del nostro passato, e delle ragioni che ci inducono a guardare indietro con la fierezza delle nostre radici. Le radici della Nazione le scopriremo con sette grandi mostre, tutte ospitate al Vittoriano. Gli appuntamenti successivi - dopo I Simboli di appartenenza - riguarderanno (uno all'anno), Il governo del territorio, Arti e mestieri, Apprendere e comunicare, Oltre i confini dell'anima, Italia ed Europa - la circolazione dell'esperienza, Le radici della Nazione.
I curatori della mostra spiegano che «per ogni tappa espositiva si è adottata come linea guida una espressione tratta dalla Costituzione italiana, in modo da evidenziare come questa rappresenti la sintesi storica del processo dell'unificazione nazionale. Il visitatore conoscerà le fonti della storia nazionale attraverso testimonianze documentarie provenienti dagli archivi e materiali visivi quali incisioni, dipinti fotografie». Tutti questi reperti sono scelti, raccolti e assemblati da un comitato scientifico di tutto rispetto, presieduto dal professor Giuseppe Talamo (che è anche presidente dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, ospitato all'ultimo piano del Vittoriano) e del quale fanno parte studiosi insigni come Sabino Cassese, Giuseppe De Vergottini, Giuseppe Galasso, Louis Godart, Francesco Margiotta Broglio, Piero Melograni, Salvatore Settis e Claudio Strinati.
Galasso - che è il curatore della mostra - spiega che uno degli obiettivi è «smentire l'idea di una identità italiana debole, senza orgoglio né senso di appartenenza, strana e a sé stante nel concerto europeo. Perché è vero tutto il contrario: identità e Stato nazionale convivono ormai da centocinquant'anni, un periodo in cui hanno superato un'infinità di prove». Inutile persino ricordare quali: due guerre mondiali, il fascismo, la caduta della monarchia, la fine della Prima repubblica. Qualche fatica in più - si potrebbe aggiungere - l'abbiamo dovuta affrontare anche in ragione del nostro passato glorioso. I francesi non hanno avuto problemi a stringersi intorno a Parigi; e gli inglesi non avevano altri poli di attrazione al di fuori di Londra. Noi - nel Medioevo e nel Rinascimento - avevamo cento capitali, con cento bandiere e cento storie diverse. Una ricchezza che ci invidiano tutti. E un ulteriore motivo di fierezza. Oggi chiamiamola pure appartenenza, ma sempre di Patria si tratta.
Prima ancora dell'appartenenza (o dell'identità) è legittimo l'orgoglio. Poche nazioni al mondo possono rivendicare un passato glorioso come il nostro. Siamo i discendenti diretti della civiltà romana, che - duemila anni fa - plasmò l'Occidente. Ospitiamo la capitale temporale del cristianesimo che - non a caso - si trova a Roma. Tutta la nostra storia si è intrecciata con il cristianesimo, che non è soltanto una fede religiosa, ma è stato anch'esso un contributo fondamentale nello sviluppo della civiltà occidentale. Nella nostra eredità genetica (di ciascuno di noi) c'è tutto questo. Ci sono Dante Alighieri e Michelangelo; ci sono le conquiste e i commerci delle Repubbliche Marinare; ci sono i banchieri di Firenze che finanziavano l'imperatore Carlo V e ne condizionavano le scelte; ci sono i grandi musicisti del Settecento e dell'Ottocento (e ancor oggi il linguaggio della musica è l'italiano, non soltanto nei libretti delle grandi opere, ma anche nella metrica e nel lessico dei tempi e delle battute).
Il Presidente della Repubblica (che ha inaugurato la mostra, manifestando una sincera soddisfazione) ha svolto un ruolo decisivo nel recupero di certi valori. Migliaia di volte, in questi anni al Quirinale, ha pronunciato la parola Patria; ha invitato i docenti e i ragazzi nelle scuole ad approfondire lo studio della storia nazionale. Che è fatta, appunto, di battaglie, ma anche - e soprattutto - di grandi ingegni e talenti che il mondo ci invidia: pittori, scrittori, scultori, architetti, musicisti, scienziati.
Se è naturale sventolare il Tricolore (e sentirsi italiani) quando la nazionale di calcio vince un Mondiale; o lo era quando Coppi valicava - un uomo solo al comando - lo Stelvio o il Mont Ventoux (lo stesso che Petrarca scalò, a piedi, nel XIV secolo) - il medesimo orgoglio può essere resuscitato (visitando la mostra) ammirando le opere d'arte che, in passato, hanno cercato di illustrare questa identità nazionale.
Sentimenti che è opportuno recuperare. Ricordando che ad evocarli furono - quando l'Italia non era ancora uno Stato Unitario - i grandi poeti: Dante Alighieri (nel grido di dolore per il destino della Patria): «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta»; Francesco Petrarca (in un auspicio disperato): «che vertù contra furore / prenderà l'arme, e fia 'l combatter corto, / ché l'antiquo valore ne l'italici cor non è anchor morto»; Giacomo Leopardi (nel tormento dei paragoni con il passato remoto): «O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l'erme / Torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo, / non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi / i nostri padri antichi». O - per concludere - ma ce ne sarebbero mille altri - Mameli, nell'inno nazionale: «Calpesti, derisi, / perché non siam popolo, perché siam divisi».
Ecco: manifestare l'appartenenza quando la Patria ancora non esiste (non esisteva) è una prova di quanto saldi siano (fossero) i vincoli, e quanto giustificata sia la fierezza oggi che quel percorso si è compiuto, da quasi centocinquant'anni. Riesumare questi sentimenti è un atto dovuto nei confronti di tutti colori che hanno contribuito - nel corso dei secoli e nei modi più svariati - a farci essere quello che siamo.
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Marco Martelli/Il Carabiniere/Italia Estera



 
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