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Il Salone del Libro di Torino compie diciotto anni

 

 

Di

 

 

Maria Laura Platania

 

 

 

 

TORINO - . Il salone del libro. La diciottesima edizione. Il tema del sogno. Abbastanza grande da ricomprendere tutto: una sezione "Lingua madre" con cinquanta autori provenienti da tutti i continenti, lo sport e la competizione in omaggio alle Olimpiadi che si terranno a Torino il prossimo febbraio, un occhio all'attualità, uno al cinema e ai suoi rapporti con la letteratura. Come in un sogno, appunto: immagini e pensieri si sovrappongono senza logica apparente e senza un senso, o, per meglio dire, con quel senso fine che fa dire al Prospero shakespeariano: “Noi siamo fatti della stoffa dei nostri sogni”. Milleduecentocinquanta gli editori presenti. Cifre da capogiro in un Paese che si è conquistato la fama di culla universale dello scrittore non lettore.

 

 

Ma, quella che si ritaglia al Lingotto di Torino in questo weekend lungo, è un’Italia singolare, linda e un po’ ritrosa che respira l’insidia del futuro con lo sguardo aristocratico rivolto al suo passato. Dove se non qui l’incontro dei libri, di intellettuali, di scrittori, in una parola di sognatori? Giovani laureati fanno da commessi tra gli stand colorati, la speranza, puoi scommetterci, è quella di piazzare nelle mani giuste quel manoscritto - ma sarà così che si chiama nell’era dei computer?-  che naviga di borsa in borsa sperando di planare là sulla scrivania grande, quella giusta. Sogno? Ma è di questo che tratta il Salone quest’anno. Con l’occhio attento a quel futuro che ha visto  Torino designata, con Roma, capitale mondiale del libro 2006 dall'UNESCO. C’è il tempo di chiacchierare nel sole caldo che si fa estivo tra gli avventori in fila: i Torinesi scettici temono lo scippo del loro fiore all’occhiello pensano che Milano, prima o poi, ruberà la manifestazione. La concentrazione sembra d’obbligo, ma, quando mai i sogni si fanno a grappolo? Anche gli editori non declinano solo i nomi grandi. C’è un tipo che si definisce “uomo con la borsa” che racconta: “Per la prima volta Homo Scrivens, la nostra compagnia di scrittura, partecipa alla Fiera del libro. Ne ho sentite tante su questa fiera che adesso che sto per entrarci, anch'io per la prima volta, non so che pensare. So che ci sarà tanta gente anche se, mi dicono, non tutti per vedere noi. So che ci saranno scrittori, editori, lettori, ma cosa faranno ancora non lo so.  Non ho capito in quest'abuso d'inchiostro quale sarà il mio ruolo. E poi non ho mai vissuto tre giorni in uno stand.”

 

 

 

 

Tre giorni in uno stand: sembra un incubo, glielo leggi negli occhi che invece è quel sogno che aspetti da tanto e, adesso, ti fa così paura che preferisci tenerli aperti e scettici quegli occhi.

 

 

“Il calendario ufficiale della fiera annuncia con aria solenne che giovedì alle 16 saremo sul palco 365 bookmark per presentare Faximile, il nostro primo libro, con attori in costume,. Già, avremmo potuto fare una presentazione classica e invece no, rischiamo, sperimentiamo e speriamo. Un'ora di follia e divertimento, proviamo a viverla, la scrittura, non solo a celebrarla. Poi ci rintaneremo nel padiglione 1, dove ci attende il nostro editore, la Frilli e da qui guarderemo il pubblico che passa, che si ferma, che ci saluta, che se ne va. Io spero che la Fiera non sia soltanto un punto-vendita, come Galassia a Napoli, ma un punto d'incontro, per conoscersi, per chiacchierare un po'. Spero che il nostro stand sia un rifugio ideale per chi voglia proporsi, per chi voglia anche soltanto parlare di libri e d'arte e di vita, per incontrare degli amici. Il vantaggio di uno stand è che non si muove. È una cosa importante, altrimenti avremmo preso un camper. Invece lo stand sta lì e noi pure e se dopo aver girato e aver ascoltato presentazioni di autori importantissimi e comprato centinaia di libri da Einaudi e Mondadori, qualcuno volesse venirci a trovare sa già che ci trova, e che noi lo accoglieremo come un vecchio amico.”

 

 

 

 

Aspettando con rabbia. Capita quando si è giovani, entusiasti, sognatori.

 

 

“Homo Scrivens - prosegue - è nata tre anni fa per promuovere e far incontrare nuovi autori, per dare spazio e voce a chi almeno vuole provarci. Noi non siamo scrittori affermati né professionisti dello spettacolo, noi siamo i giullari, la scrittura giovane, gli entusiasti, quelli che ancora si emozionano quando vedono qualcuno sfogliare il nostro libro, quelli che ancora non credono che davvero ci faranno entrare gratis alla Fiera, quelli che al momento di salire sul palco si ricorderanno di quando hanno iniziato a scrivere, per rabbia o per amore, pensando che nessuno mai si sarebbe interessato di loro”. L’occasione della vita,  nello spazio irreale del Lingotto.  Fuori c’è Torino  quella da attraversare in bicicletta, la passione di Guido Gozzano , «la più duratura e la più forte»: compagna di gioiose scorribande attraverso le campagne intorno, le care pianure canavesane — sconfinate come la libertà di quei giorni. Guido Davide Gustavo Riccardo del Cav. Ing. Fausto, nato a Torino, era allora Gustavo, assetato già di versi, quelli di sua madre Diodata, versi di vita famigliare, di nozze e funerali, e quelli di Prati e Aleardi, romantici come le sue primavere. Correva, volava, in sella alla sua bicicletta, fuori e dentro Torino, in Piazza d’Armi come sulle montagne russe, e per le strade della città lunghe come boulevard parigini. C’era la bicicletta, e già un amore giovane per i versi e per le farfalle; e il meleto dell’oblìo, come un luogo fermo del cuore — di palme, magnolie, gerani, ortensie, tigli, limoni. E un viale di meli che arrivava al laghetto, e un frutteto. E c’erano giornate pigre e sonnolente sui banchi del liceo Cavour, a scarabocchiare donne barbute sui quaderni, e biciclette, un mare, un libro, un mappamondo; voti che scendono, in greco e matematica soprattutto, biglietti passati sotto banco all’amico Ettore, Amami Ettore, ti conforterò, e fantasticamenti di vacanze spensierate fin da ottobre: «Dal mio banco di scuola, ore 10 e mezza antimeridiane, Torino, Ginnasio Cavour, 16 giugno 1900…» e burle infami a non finire. Bella Torino a guardarla dall’alto, in cima alla Mole Antonelliana, i giardini e i caffè, l’onesto e preciso reticolato di strade, ragnatela geometrica aggrappata al suo fiume; bella Torino: “Torino è nostra da quassù, ragazzi miei, e la Piazza d’Armi coi bassorilievi nel suolo pel maraggio dei cavalli, e la piazza Cavour e i giardini reali, il Caffè San Carlo, il parco del Valentino, Palazzo Carignano, i portici all’angolo di Piazza Castello con via Po, e la borsa del Cine, e la Fiat. I tigli neri, le dritte vie corrusche di rotaie; è nostra Torino, pisciamoci sopra da quassù.”

 

 

L’irriverenza dell’intellettuale non guasta mai: «Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo - insisteva - col sordo rancore contro la letteratura, come tutti quelli che ne hanno succhiato i tossici. Eppure quanto l’amava, se tornava a chiudersi nella biblioteca di cui era gelosissimo. L’odore dell’inchiostro putrefatto, i libri  e il sogno di una vita che finiva.

 

 

L’inchiostro oggi è inodore, a volte anche le parole sono asettiche rimbalzano feline da stand a stand o  mutano d’accento, di lingua, di cuore.

 

 

La chiamano intercultura e “Lingua madre” quest’anno al salone.

 

 

 Ci sono una cinquantina di scrittori, con qualche saggista e poeta, che si misurano con i territori dell'identità, scrivono in lingue che si spingono anche oltre l’identità dei paesi in cui sono nati. Sono donne per lo più a dare voce a queste "lingue madri”:Yadè Kara è una scrittrice  turca  di Berlino, due volte vent’anni e una sensualità orientale, fresca di pubblicazione in Italia – “Salam Berlino”, il viaggio di un turco-tedesco alla scoperta della Germania post muro: “ le donne sono più intelligenti degli uomini e poi sanno ricomprendere culture diverse senza la smania di incollare etichette”.

 

 

Marsha Mehran ha abbandonato l'Iran bambina allo scoppio della rivoluzione di Khomeiny ha  vissuto negli Stati Uniti e in Argentina  e ha trovato la sua terra in Irlanda. Racconta il suo viaggio con la penna intrisa di profumi fecondi e diversi  in “Caffè Babilonia”, dalla separatezza aristocratica dei giardini di Teheran all’odore aspro dell’Irlanda. Profumi e sapori col gusto delle donne che tutto impastano con le mani: anche la letteratura. E le lingue. Quanto alla "lingua madre", la scrittrice non ha dubbi: «Sogno in inglese, vivo in inglese, amo in inglese. In che lingua dovrei scrivere le mie storie?»

 

 

Un altro punto interrogativo che vaga all’incrocio gentile di pensieri che inseguono la mistica del sogno.

 

 

 Dottorale quella da lectio magistralis di Remo Bodei,   ricca di creatività artistica, letteraria e scientifica quella con  registi come Paolo Virzì e Davide Ferrario, fisici come Tullio Regge e Giorgio Parisi, architetti, matematici, gastronomi come Allan Bay. Concreti con il premio Nobel per l'economia, Joseph Stiglitz, leggera con  il poeta francese Yves Bonnefoy e la spagnola Julia Navarro.

 

 

E poi la quotidianità dei  giornalisti: Lilli Gruber, Monica Maggioni, l'americano William Langewiesche. Le  curiosità: il colonnello Luciano Garofalo, dei Ris di Parma  a colloquio con l’ormai esperta Irene Pivetti.

 

 

"La sindrome di Tourette" di Vincenzo Cerami è una conferenza che si propone interessante, l’autore è gradevole, ma si vede che il suo è un grande avvenire dietro le spalle: sicuro e disinvolto non ha l’ansia curiosa del ragazzo con la borsa.

 

 

La  biografia di Don Gallo: "Angelicamente anarchico", altra sala, altro libro. Prete no global diranno dopo il G8 genovese, ma "anti" Don Gallo lo è stato sempre. Partigiano, salesiano espulso dalla congregazione, fondatore di comunità di accoglienza (non terapeutiche ci tiene a precisare), con la sua verve e il suo vocione si racconta in modo scoppiettante strappando molte risate e molti applausi tanto che Chiambretti, il suo presentatore,  è relegato in una parte di comprimario. Ci lascia una lezione: il primato della coscienza vale anche per i cattolici. Un prete giovane nonostante i suoi 77 anni. Cose che capitano srotolando il tappeto lacero  del sogno.

 

 

Vauro presenta un libro scritto a quattro mani con Giulietto Chiesa: “I peggiori crimini del comunismo”, evidente paradosso. Chiesa non c'è. E' stato convocato da Prodi e Vauro non si lascia sfuggire l'occasione per lanciare qualche frecciatina divertita all'amico che ha preferito andare a parlare con Prodi piuttosto che essere con noi a Torino. Dacia Maraini e la sua "Colomba" narrata in conversazione  con Giovanna Zucconi, Gabriele Vacis, regista teatrale, che ha letto alcuni brani della raccolta di fiabe con ritmo inadeguato, lento, incolore, è forse la delusione del Salone.

 

 

Tutto il resto lo hanno già detto le cifre, i bilanci, i numeri: ma si può imbrigliare in cifre un sogno? Di lontano  sulla sua bicicletta sghemba il giovane Guido, poeta, si allontana, inseguito da presso da un gufo gigante e un abile suonatore di gong.(Italia Estera) -

 

 

 

 




 
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