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15 gen 2004Solo sessant’anni ++di Maria Laura Platania++

di Maria Laura Platania
 
“ Ai primi d’ottobre i tedeschi arrivarono ad Ancona e malgrado non facessero ancora nulla contro gli ebrei eravamo preoccupatissimi per quello che sarebbe accaduto una volta che si fossero sistemati in città… alla vigilia di Kippur io non me la sentii di affrontare un pericolo troppo grande. Ero sicuro che i tedeschi conoscevano la data del giorno di Kippur  e ero altrettanto  sicuro che sarebbero venuti al Tempio per trovarci tutti riuniti insieme. Dissi, dunque, agli ebrei presenti alla funzione che da quel momento il Tempio sarebbe rimasto chiuso e chi voleva pregare nel  giorno del digiuno poteva farlo  venendo in via della Loggia, in casa della professoressa Andreina Cohen. 
 
era una brava insegnante che aveva perduto il  suo incarico  nella scuola media pubblica e che ora si dava da fare nella scuola ebraica; aveva compreso la mia preoccupazione e, generosamente, aveva messo a disposizione il suo grande appartamento….i Tedeschi vennero al Tempio e lo trovarono vuoto.
 
Noi eravamo riuniti in via della Loggia …verso mezzogiorno una donna venne ad avvisarci che i tedeschi erano entrati nel nostro portone. Non sapendo che altro fare , dissi a tutti di rimanere al loro posto , perché la preghiera non poteva essere interrotta . Il Signore ci avrebbe aiutato . Infatti, non so come, avvenne una cosa  straordinaria. I Tedeschi entrarono in tutti gli appartamenti fino al terzo piano, ma da noi, che eravamo al quarto , non arrivarono e se ne andarono. Rimanere ad Ancona era ormai, un’inutile temerarietà”.   Elio Toaff  incastona così, nel suo “Perfidi giudei fratelli maggiori”, un tassello di microstoria  che ancora è possesso sicuro nella memoria  di chi, bambino, adolescente o giovane, quelle vie di Ancona percorreva  protetto da un distintivo, difeso da una divisa o oltraggiosamente violato da una vivida stella di David.
 
“La parola ebreo”, scoperta dolorosa di Rosetta Loy  nella paura istintiva  di bimba  che fugge il pianto indifeso di neonato circonciso nel palazzo di fronte  rimestato da grida e sonore risa di festa, si fonde nell’azzurro  dilatato da atavico terrore negli occhi di Helga Schneider e nel suo “Il rogo di Berlino”  che quell’orrore soffre involontariamente impresso nella carne: “Mia madre si convinse che seguire la causa de fuhrer fosse più onorevole che allevare i propri figli; così ci abbandonò entrambi in un appartamento di BerlinNiederschonhausen e si arruolò nelle SS”.
 
Una madre da strappare dalla carne anche trent’anni dopo, quando, ritrovata, mostra orgoglio per quella scelta, conservata gelosamente in una vecchia divisa appesa.  Divisa da aguzzina di Auschwitz.
"Io sono razzista: sono convinta della superiorità della razza bianca,  non tollero  la vicinanza dei cosiddetti diversi, che vengono in Italia a portare via il lavoro alle famiglie che ne hanno bisogno".
Sembrerebbe un'asserzione inventata per suscitare emozioni, o tirata fuori da un vecchio giornale di tempi forse archiviati troppo velocemente.
 
E così, purtroppo, non é. A esprimere questi sentimenti, nero su bianco, - l'occasione un tema  di presentazione di se stessi - é una ragazza di sedici anni Monia M., alunna della terza classe superiore di una scuola secondaria.   Fornire in chiaro le generalità di questa giovane non ci sembra giusto, anche se, probabilmente, lei non avrebbe assolutamente nulla in contrario. Dichiara, infatti, di non essere l'unica a  pensarla così e mostra un certo orgoglio per un comportamento che ritiene "sincero e spontaneo in un mondo di bugiardi". 
 
"No, secondo me, qui da noi il problema  non esiste proprio – è la risposta di Giuliana, vent'anni - a scuola avevo una compagna di religione  ebraica, ma per tutti era un'amica come le altre: i miei nonni mi raccontano come, quando in Italia erano state introdotte le leggi razziali, la gente nascondesse gli ebrei perché erano amici, perché si conoscevano da sempre, perché non c'era differenza né di pelle, né di cuore. E oggi, nel terzo millennio, noi dovremmo tornare a comportarci peggio degli uomini delle caverne?".
 
"Non credo che nella  realtà italiana -  spiega Gianluca, diciotto anni - esistano davvero persone che coltivano ideali nazisti; sì conoscevo, quand’ero più piccolo,  un paio di cretini che si rasavano la testa con i capelli tosati a forma di N, ma erano solo cretini.  Non so che fine abbiano fatto. Penso che non avrebbero fatto male davvero a nessuno  e che avevano poche idee ben confuse: la testa rasata e una vecchia Harley Davidson  per girare il mondo. Era  un modo, forse, per acchiappare qualche ragazza in più”
 
"Io non credo che nella nostra Italia  esista  questo problema- afferma Ludovico, giovane universitario, al terzo anno di Giurisprudenza nella Capitale  - a me fa spavento il vuoto politico e mentale che sta sotto queste, chiamiamole così, mode: questi poveracci non fanno riferimento alle filosofie 'strutturate' della razza e del primato di un popolo sull'altro. Si servono di simboli del passato per fare delle battaglie che riguardano il presente, le loro aggressioni si sfogano magari nello sport, proprio perché sono naturalmente, non ideologicamente violenti".
 
Distanza  misurata  a palmi larghi, “Sì, forse, ma non davvero”, la tentazione forte  di essere ottimisti, con in bocca un sentimento aspro di contraddizione: il frutto maturo dei nostri tempi. 
Pure i bambini sono bambini, a qualunque  taglio sbieco del tessuto sociale appartengano: Rosetta, come Helga.come Elisa.
 
E se a Roma, non troppo tempo fa,  in una scuola,  un bambino che a mala pena contava con le dita delle mani e la punta del naso, la somma della sua ingenua età apostrofava  la compagna  con la “parola ebreo” non è a lui che possiamo imputare il non conoscere la volgarità di senso che noi animali adulti le abbiamo attribuito. Le parole sono pietre ma le pietre possono essere preziose, leggere come lapilli o pesanti come quelle dello  scandalo che il vangelo mostra ai nostri volontari errori.
 
E la memoria vola ad Elisa Springer, (qui nella foto) che,  accompagnata dal figlio Silvio Sammarco, quel figlio che mai "avrei pensato di potere vedere",  fu accolta con  rispetto e sentimento di fraterna amicizia nella Chiesa della Natività della Beata Vergine di Passo di Treia, un microcosmo nemmeno un puntino geografico nella carta geografica d’Italia.
Testimoniava  la sua  memoria, invitando  a un collettivo "chiedo perdono"., a un ripensamento di quelle parole.
 
Elisa Springer ottantadue anni di saldo coraggio che rompe “Il silenzio dei vivi”  - è il suo libro-testamento, la scrittrice ebrea è morta lo scorso settembre dopo avere dedicato gli utlimi anni della sua vita alla testimonianza  - col lucido sguardo di chi, tormentata, ritorna, coi piedi legati, alla ferita di un campo di sterminio dal nome di piombo pesante Auschwitz.
 
Passo di Treia, che a Treia – questa sì cittadina legata  a nomi importanti come Giacomo Leopardi e al suo amico giocatore di pallone -  era un campo di internamento per ebrei.
E' una donna  ancora giovane nello sguardo, nella forza della parola, nella figura eretta quella che affronta con piglio deciso il pulpito.
"Quando il sei agosto del 1944  sono arrivata ad Auschwitz non avrei mai potuto immaginare che un giorno avrei saputo raccontare la mia storia. Là ho lasciato la mia gioventù, i miei sogni, le mie speranze, il mio aspetto fisico, i miei sentimenti umani. Volevo volare alto, ma Hitler mi aveva tagliato le ali "racconta nel silenzio attonito di una Chiesa gremita di uomini, donne, bambini attenti alla voce bassa e modulata, alle immagini che, proiettate nella penombra, contro l'altare cristiano, descrivono quello che la parola non racconta: una famiglia della buona borghesia viennese, studi tranquilli, chiacchiere pomeridiane, domestici svaghi.
 
 Fotografie mute che recitano il loro "siamo tutti morti" in quella sospensione della vita che è l'attimo prima della inaspettata tragedia.
"Ho taciuto per cinquant'anni. Gli altri hanno osservato un silenzio che mi ha imposto il silenzio, ma io dovevo aprirmi, togliermi quel peso, pure, ogni volta che il gravame della memoria me lo imponeva, mi si voltava le spalle, mi si rideva in faccia,mi veniva gettata addossa l'altrui incredulità.
Avevo inventato tutto. Così mi sono annientata, ho fatto tacere il mio vero io"
E il filmato percorre di nuovo, con chi è testimone involontario chiamato ancora una volta, forse per la prima o l'ultima volta della sua vita a giustificarsi e condannare l'errore, i corridoi scuri nelle coscienze di Auschwitz, oggi risonanti delle voci di ragazzi che vogliono e debbono conoscere.
 
"Esistono due silenzi - spiega Elisa - uno è quello di allora che aveva l'amaro sapore dell'indifferenza e della morte, l'altro è quello che incontro  da qualche anno a questa parte, il silenzio che mi ha ridato la vita . Oggi sono di nuovo quella Elisa Springer del 6 agosto del '44."
 
 Silvio Sammarco, il figlio nato nel '48, oggi fa il medico, è fondatore di una Associazione Springer, fa parte dei figli della Shoa  e con la madre  e l'affettuoso appoggio della moglie lascia periodicamente la Vienna eletta a residenza dalla natia Manduria, in provincia di Bari, perché, come lui stesso afferma " Non vogliamo più cimiteri di guerra, ma cattedrali dell'assenzo: mia madre ha visto con i suoi occhi il dolore dell'umanità, noi oggi chiediamo il rispetto di quella ferita che è diventata la nostra dignità"
 
E al dolore di quel "popolo dell'aria" - "Nessuno poteva essere sepolto nella terra" - Elisa Springer, la sopravvissuta, che dopo cinquant'anni ha strappato il cerotto che imponeva il silenzio al grido muto del suo numero  di matricola, a quel dolore Elisa offre il conforto del ricordo, la memoria che salva, non l'odio che divide, ma il progetto di una pace che sia oggi, in un mondo che ancora soffre le stesse colpe e le stesse pene,  la forza  di chi domani vivrà la propria vita.
 
" Io, Elisa Springer oggi sono qui a offrirvi il mio cuore: hanno tentato di distruggermi, ma hanno fatto più forte la mia anima. Ecco perché Dio è grande, è lo stesso Dio d'amore che è padre di tutti perché tutti apparteniamo alla stessa razza umana. A noi si è imposto di sopportare la menzogna. La nostra dignità silenziosa ha dato senso alla nostra vita. Questo è l'impegno che vi chiedo: non abbiate paura della memoria, non barattate la vostra dignità e la vostra anima con il nulla che vi circonda, non chiudetevi nei recinti di nuovi e più violenti egoismi."
 
Il figlio Silvio  il 21 di Marzo del 2001 ha permesso l’apertura, a Vienna, del  processo a Henrich Gross medico nazista, che lui stesso ha scovato e inchiodato alle sue orribili responsabilità, quel Gross che  per cinquantatré anni è stato l'anatomopatologo più celebre d'Austria,  il medico buono che teneva più di seicento cervelli archiviati, cervelli strappati per lo più a bambini ebrei,  bene è proprio a Silvio che affidamo l'ultima parola di esortazione e speranza: "Ai giovani voglio dire  che in tutte le esperienze , anche le più negative c'è qualcosa di buono, io ho imparato a reagire, a ricordare, a sperare. Pensate alla vita come ad una rosa: le spine si possono togliere se tutti insieme vogliamo farlo. E mi piace pensare che un giorno, tutti insieme affronteremo lo stesso cammino".
 
 Maria Laura Platania
 
documento fotografico di Enrico Oliari del 2003



 
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