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14 apr 2007LA DIPLOMAZIA DEI MOVIMENTI, Analisi degli avvenimenti afghani

Commento di Aldo Lardone

ROMA, 14 APR (Italia Estera) - L’ipocrisia è un ingrediente di base della nostra convivenza, particolarmente indispensabile al buon funzionamento della politica. A patto di non abusarne senza pudore, come è stato fatto da più parti nella vicenda tragica e penosa del sequestro Mastrogiacomo. 
Si può anche rassicurare la nostra coscienza affermando che Adjmal Nashkbandi fosse uno di noi. Forse oggi lo è diventato dinanzi a Dio, per chi ci crede. Ma in cuor nostro sappiamo bene che è stato decapitato precisamente perché non era uno di noi. Perché il pressing esercitato dal governo italiano per liberare Mastrogiacomo, con il consenso forzoso di Karzai, non si è ripetuto quando nelle mani dei Talebani è rimasto soltanto lui. Quella per il giornalista italiano è stata una trattativa efficace, che ha permesso di salvare almeno una vita umana e di restituire Mastrogiacomo alla sua famiglia. Una trattativa indispensabile, in mancanza della quale il governo Prodi si sarebbe trovato dinanzi a una crisi interna che avrebbe potuto condurre al ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan. Ma sarebbe stato meglio se questa verità fosse stata spiegata all’Italia direttamente dal suo governo, piuttosto che sentirsela raccontare da un Karzai uscito da questa vicenda ulteriormente indebolito dinanzi alla propria opinione pubblica, ma per niente disposto a fare anche la figura del fesso.
Analogamente, si può ascoltare in rispettoso silenzio la versione ufficiale che vuole Gino Strada coinvolto nella trattativa in virtù dei suoi spettacolari meriti umanitari e poi inspiegabilmente sfuggito ai canoni della buona creanza. Ma si sa bene che tra le decine di ong occidentali che operano in Afghanistan, in situazioni analogamente rischiose, si è scelto di coinvolgere Emergency in considerazione del profilo politico di questa organizzazione: un profilo che la rende capace di ridurre al minimo la distanza dai tagliagole talebani, grazie al marketing politico di un personaggio che non ha esitato in passato a definire «nazisti» i militari della Nato e che solo pochi giorni fa si è rivolto al mullah Dadullah facendo appello alla sua «umanità» e ai suoi «profondi sentimenti religiosi» in nome dei «tanti italiani che non sono d’accordo con la decisione di partecipare all’occupazione militare dell’Afghanistan».
Opinioni legittime quelle di Strada e scelta efficace quella del governo italiano, ci mancherebbe. Ma almeno ci si risparmi la sceneggiata del coraggioso medico di guerra sottratto ai suoi alti doveri umanitari. Perché in questi anni molti altri medici altrettanto coraggiosi ? e tra tutti ricordiamo almeno il nome di Alberto Cairo ? si sono dedicati a lenire le spaventose sofferenze del popolo afghano senza impartirci ogni settimana la propria lezione sui mali dell’Occidente e senza perdere di vista per un momento la differenza che corre tra il terrorismo talebano e la fragile democrazia afghana.
Infine, si può anche guardare all’invito ad abbassare i toni venuto da Silvio Berlusconi come a una saggia dimostrazione di concordia nazionale. Ma a nessuno sarà sfuggito che quell’invito è venuto pochi minuti dopo l’accenno del governo alla possibilità di promuovere una commissione ad hoc su tutti i rapimenti di italiani sui fronti della guerra al terrore. Un accenno che è valso come avvertimento trasversale e straordinariamente vantaggioso, nei riguardi di un centrodestra che quando era al governo non ha esitato a foraggiare la guerriglia afghana e irachena con milioni di dollari. E che non ha alcun interesse a che si faccia piena luce sui modi altrettanto obliqui con cui a suo tempo ha condotto la nobile arte della trattativa con il nemico terrorista.
Se è possibile trarre un qualche insegnamento da questa piccola galleria della dissimulazione è che talvolta la politica farebbe bene ad abbassare il livello di ipocrisia a cui ricorre. Se non altro per non aumentare a dismisura la distanza che la separa dal pubblico. Il pubblico vero e mediamente attento a ciò che accade, quello che legge i giornali e ascolta la televisione. E che ha appena assistito a una vicenda tanto tragica per chi non ha avuto la fortuna di nascere in Italia quanto ignominiosa per la dignità del nostro Paese.
Amrullah Saleh, il giovane capo dei servizi segreti afghani, accusa Emergency e il suo mediatore nel sequestro Mastrogiacomo, Rahmatullah Hanefi, di essere collusi con i talebani. Ieri sul Corriere della Sera, come già in passato, è stato netto: “Abbiamo le prove che Hanefi è un facilitatore dei talebani, se non addirittura un loro militante travestito da operatore umanitario”. Il National directorate for security (Nds), la battagliera intelligence di Kabul, sta verificando “l’ipotesi che Rahmatullah abbia teso una trappola sia a Torsello sia a Mastrogiacomo”. Secondo Saleh, “l’errore è stato fin dall’inizio coinvolgere nella trattativa Emergency, che in realtà non è una vera organizzazione umanitaria, bensì un fiancheggiatore dei terroristi e persino degli uomini di al Qaida in Afghanistan”. Perché oggi Saleh lancia accuse così precise e pesanti? Poco più che quarantenne, originario del Panjsher, la valle a nord di Kabul dominata dai tagiki, Saleh si è formato all’ombra del comandante Ahmad Shah Massoud. Quando Massoud era ministro della Difesa nella Kabul minacciata dai talebani, a metà degli anni Novanta, Saleh, grazie alla sua padronanza dell’inglese, accoglieva per conto del governo i giornalisti. Fra questi c’erano anche Maria Grazia Cutuli e Raffaele Ciriello, che moriranno entrambi in missione all’estero. Maria Grazia fu trucidata dai talebani, e furono proprio gli uomini di Saleh a catturare uno dopo l’altro tutti i responsabili. Quando il mullah Omar conquista Kabul, Saleh si ritira nella roccaforte del Panjsher, assieme a Massoud, e poi viene distaccato presso l’ambasciata afghana a Dushambè, capitale del Tagikistan, retrovia dei mujaheddin antitalebani.
Gino Strada conosce Saleh proprio a Dushambè, quando Emergency stava realizzando il suo primo ospedale in Afghanistan ad Hanaba, nella valle del Panjsher. I giornalisti che ancora vanno a intervistare Massoud, il quale prevedeva inascoltato l’attacco alle torri gemelle, si trovano a proprio agio con Saleh, con i suoi completi occidentali un po’ lisi e senza barbone islamico. Spesso  andavano a mangiare assieme in un cupo ristorante della mafia russa e ogni volta Saleh portava un ospite che forniva informazioni preziose sulla situazione afghana. A un certo punto, il futuro capo dell’intelligence si era anche improvvisato giornalista con una newsletter via e-mail sull’Afghanistan, ma a nessuno interessava spendere pochi dollari al mese per le notizie di una guerra dimenticata. Il 9 settembre 2001 due terroristi di al Qaida travestiti da giornalisti si fanno esplodere durante una falsa intervista e uccidono Massoud.
Saleh lancia l’allarme, che rimbalza nel vuoto. Due giorni dopo i terroristi attaccano gli Stati Uniti. Quando comincia la campagna alleata contro i talebani, accompagna i corpi speciali americani in territorio afghano.
I rapporti con la Cia
Nella Kabul liberata dai talebani Saleh inizia a lavorare alla nuova intelligence con l’aiuto della Cia e sotto l’ala dell’ingegnere Areef, uomo di Massoud, il primo capo dei servizi afghani del governo di Hamid Karzai. Con Strada i rapporti cominciano a farsi difficili dopo il 2001, quando il fondatore di Emergency chiede di far visita ai prigionieri talebani e di al Qaida a Bagram, la base americana a nord di Kabul. Quando la fazione tagika all’interno del governo afghano comincia a perdere potere, l’ex leoncino di Massoud sopravvive e nel 2004 è nominato capo dell’Nds. Karzai lo porta con sé all’incontro di pochi mesi fa con il presidente pachistano Pervez Musharraf, il quale non lo vuole nella stessa stanza durante i colloqui.
Non c’è da stupirsi: è stato lui a preparare il dossier sui campi di addestramento dei talebani e di al Qaida, con i nomi e i numeri di telefono dei responsabili, annidati ai confini con l’Afghanistan. Con le vicende degli ostaggi Saleh ha sempre usato la linea della fermezza. Ma è rimasto tagliato fuori, per volontà di Emergency, dalla vicenda Mastrogiacomo. L’Nds puntava a uno “scambio controllato” con i talebani, scegliendo il momento e il posto in maniera tale da non avere brutte sorprese, come è poi avvenuto con la mancata consegna di Adjmal Naqshbandi, l’interprete decapitato domenica.
Gino Strada definisce i servizi afghani “una banda di assassini”, ma Saleh dice di avere le prove dell’“Emergency talebana”. Non le ha mai mostrate, ma l’inchiesta si basa su alcuni fatti precisi. Il primo è la convinzione dei servizi – tutta da dimostrare – che sia stato lui a convogliare Mastrogiacomo e i suoi collaboratori nelle mani di Hajj Lal Mohammed, il capo bastone del mullah Dadullah, in uno dei distretti della provincia di Helmand. Mastrogiacomo è passato per Lashkargah prima di finire in trappola, ma Strada ha sempre negato che abbia preso contatto con l’ospedale di Emergency dove lavorava Hanefi.
Il secondo aspetto su cui insistono i servizi afghani è il conciliabolo fra Rahmatullah e i capi talebani sul greto del fiume dove è avvenuto lo scambio. Dopo la discussione, Mastrogiacomo è tornato in libertà e Adjmal è sparito nell’inferno talebano. Ma l’accordo era di cinque uomini di Dadullah liberati in cambio dei due ostaggi. Inoltre Saleh accusa l’uomo di Emergency di avere una rubrica telefonica dei talebani e di aver parlato con loro non come un mediatore, bensì come “un loro militante”.
L’intelligence sta indagando anche sul coinvolgimento di menti più fini di Dadullah, provenienti dal Pakistan, nella vicenda del sequestro. Hanefi risulta indagato anche per il rapimento di Torsello: la rivelazione di Strada sul fatto che è stato lui a consegnare un riscatto di due milioni di dollari ha contribuito ad aumentare i sospetti dei servizi afghani di Saleh. In più, sarebbe stato Hanefi a far acquistare il biglietto di ritorno di Torsello: quindi era al corrente del giorno, l’ora e il tipo di pulmino su cui sarebbe salito il free lance per tornare a Kabul. I suoi sequestratori lo aspettavano lungo il tragitto, nella solita provincia di Helmand. Ora l’unica soluzione è mostrare le eventuali prove, per capire se Hanefi è un capro espiatorio, o se si tratta di un’innominabile verità.
(...) C’è, in Italia, un diffuso atteggiamento di sospetto nei confronti del governo Karzai e dei suoi servizi di sicurezza – l’altro giorno, sul Foglio, Fausto Biloslavo ha tracciato un efficace ritratto del loro responsabile – che porta a volte a mettere sullo stesso piano la barbarie talebana e le incertezze della democrazia afghana, quasi ripetendo, in modo farsesco, il vecchio schema: né con lo stato, né con le Br. E’ un atteggiamento diffuso nella sinistra radicale, pacifista e snob, da Caruso a Milly Moratti. E che ha avuto ampio spazio, nelle ore successive alla liberazione di Daniele Mastrogiacomo, quando Gino Strada accusò i servizi afghani di aver sequestrato l’interprete che secondo Emergency risultava liberato.
In fondo chi, se non i mediatori almeno maldestri di quella liberazione avrebbe dovuto sapere che il famoso ponte sul torrente Luirud – di là i talebani, di qua Rahmatullah, Samir Ullah Sharaf e l’emissario italiano di Repubblica – non era stato attraversato da Adjmal? Così, capitò poi si veder messe le due sorti sullo stesso piano: l’ostaggio Adjmal e l’arrestato Rahmatullah, quando era evidente che l’uno rischiava la vita, e l’altro richiedeva invece che si chiedessero la formulazione di capi d’imputazione, le normali garanzie di difesa, e insomma tutte le cose che è giusto chiedere a un governo democratico al cui rafforzamento abbiamo dedicato, tra le altre cose, una difficile missione militare.
Per farla breve, sembra che ancora una volta, l’ossessione antiamericana di certa sinistra conduca a un’equidistanza impossibile. Impossibile da reggere, tanto che Gino Strada ha definito tagliagole i servizi di Karzai nelle ore in cui i talebani tagliavano la gola ad Adjmal – né con lo stato né con le Br, ma un po’ più vicino alle Br – e che Emergency sostiene di essere ridotta ad abbandonare l’Afghanistan non già dalla minaccia terroristica – chi ha sequestrato i medici e gli infermieri afghani, chi tiene sotto sequestro i cooperanti francesi? – ma dai minacciosi sospetti sul conto del loro lavoro esplicitati da funzionari dei servizi di sicurezza afghani. E’ solo, Gino Strada, in questo? No, se perfino Mastrogiacomo, cui impietosamente si imputa l’umanissimo gesto sulla scaletta dell’aereo, arriva a scrivere che, sequestrato, ha capito la condizione dei detenuti di Guantanamo. No, non è così, Guantanamo sarà pure un buco nero o una zona grigia del diritto internazionale, ma non hanno mai sgozzato nessuno: magari Adjmal e Saed fossero finiti a Guantanamo.
Ora,  non si vuole difendere Gino Strada, ma neanche bastonarlo nel momento in cui ha tutti contro. Ma non gli si può dare torto quando sostiene, in poche parole, di essere stato usato e abbandonato dal governo. In modo brutale, e a volte persino ingenuo, Gino Strada ha il merito di dire ciò che una parte della maggioranza pensa, ma poi non ha il coraggio di esplicitare: che ad andarsene da Kabul non dovrebbe essere Emergency ma il contingente italiano, che il guaio dell’Afghanistan e del mondo non è al Qaeda ma Bush, e il terrorismo è solo figlio di una politica americana dissennata, e che l’odiosa guerra non è quella dichiarata e subita l’11 settembre, ma quella che i gendarmi della Casa Bianca hanno pianificato prima e dopo quella data, in nome di una volontà di dominio e d’una inconfessabile sete di petrolio.
E, contiguo a Strada, ha il sapore del vero anche la denuncia di Peacereporter: “Nessuno parla del sempre maggiore coinvolgimento bellico dei militari italiani presenti nel paese, ormai pienamente coinvolti nei combattimenti… le nostre forze speciali sono sempre più attive nel contrasto alle penetrazioni talebane nell’Afghanistan occidentale, come dimostrano i sempre più frequenti scontri armati sostenuti dai nostri soldati. Scontri per i quali viene fornita l’ormai trita versione ufficiale dei fatti: attacchi di ‘elementi ostili’ che hanno aperto il fuoco sui nostri militari impegnati in un ‘normale pattugliamento’. Ma le nostre forze speciali, come quelle di ogni paese, non vengono impiegate in attività di ‘normale pattugliamento’, bensì in attività di controinterdizione. Ciò significa che gli incursori del 9° reggimento Col Moschin dell’esercito e del gruppo operativo incursori della marina cercano, trovano e annientano le forze talebane penetrate da sud nel settore italiano”. Ciò che probabilmente è vero. Ma può essere sostenuto davanti ai microfoni, o nelle aule parlamentari? No, meglio l’ipocrisia di una missione alla libanese, ininfluente.
Per quel poco che si è visto è una guerra che può essere vinta: trattando per salvare gli ostaggi, scavando pozzi e costruendo scuole, e combattendo, sconfiggendo i talebani. Ma può anche essere persa. Trattando male, non ricostruendo abbastanza, combattendo con un braccio legato dietro la schiena.
 
Aldo Lardone/Italia Estera 



 
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