ROMA, 20 MAR. (Italia Estera) - Il Falcon con a bordo il giornalista Daniele Mastrogiacomo é arrivato a Ciampino.Il giornalista è uscito a braccia alzate, salutando e abbracciando subito i familiari. Ad attenderlo c'erano, tra gli altri, i familiari, il presidente del Consiglio Romano Prodi, il viceministro per gli italiani nel mondo Franco Danieli e il direttore di Repubblica Ezio Mauro. Mastrogiacomo è stato il primo a uscire dal velivolo, con le braccia alzate, con un urlo liberatorio quasi a scacciare definitivamente l'incubo passato, solo ora che ha rimesso piede in Italia. Daniele Mastrogiacomo, maglione bianco e pantaloni scuri, per prima cosa ha abbracciato i suoi familiari per poi ricevere le felicitazioni della piccola folla radunatasi all'aeroporto ad attenderlo.
Il Primo reportage di Mastrogiacomo su Repubblica
"Fra due ore, preparati". Il comandante, come lo chiamano, anche oggi e' raggiante, perfino ironico. Entra nella stanza in terra e paglia dove dormiamo da domenica notte e annuncia: "sei libero, voli via", mi dice mimando un aereo che decolla. Sono stordito. Le notizie che ho imparato a percepire da qualche parola di pashtun farfugliata dalle guardie all'esterno, mi fanno capire che tutto sta per finire. Sono ad un passo dalla liberta'. E' l'inizio del primo reportage che Daniele Mastrogiacomo ha scritto per il suo giornale, "la Repubblica", subito dopo la liberazione per raccontare in una sorta di "Diario della prigionia" tutte le sensazioni che hanno segnato 15 giorni di catene. "Mi alzo in piedi, con le catene che mi stringono le caviglie da 15 giorni e fisso il comandante con stupore, allo stremo, diviso tra la paura di subire una nuova delusione e il fortissimo desiderio di tornare libero. Non credo piu' a niente - prosegue la corrispondenza di Mastrogiacomo da Lashkar Gah -, diffido di tutto. Lui mi stringe le mani. Ha un sorriso bianco circondato da una barba sottile nera. "Sure?" gli chiedo. Ride ancora, risponde: "Sure!" sicuro. Salto dalla gioia, muovendomi a scatti per via delle catene che mi impediscono di fare dieci centimetri alla volta. Mi sono sentito, mi hanno fatto sentire, un prigioniero di Guantanamo". I sei guardiani, irrompono nella stanza - prosegue -, sono felici, sorridono, stringono le mani, mi battono pacche sulle spalle. Chiedono scusa, si avventano sui lucchetti delle catene. Le chiavi si sono perse nel deserto. Prima affrontano il catenaccio del collega e interprete afgano Ajmal, anche lui liberato e rientrato a casa. E' un lucchetto piu' grosso, ci vuole piu' forza e piu' costanza. Facciamo a turno, studiando come e dove rompere. Con tutto quello che troviamo. Io resto li', ad osservare. Ajmal ha il viso distrutto. Troppe volte siamo rimasti delusi, troppe volte in uno sconforto che non mi faceva piu' respirare, mi sfogavo con lui e gli dicevo che si doveva assumere gran parte della responsabilita'. Lo esortavo a reagire, a non usare quella tecnica della vittima, del finto malato, quasi dell'offeso. Avevamo davanti un gruppo tosto, forte, deciso. Non c'era nulla da essere offesi, ci avevano venduti. La sua fonte gli aveva promesso un'intervista ad un comandante di spicco dei Taliban. Non era cosi'. Forse il contatto, che ha pagato con la vita, ci ha venduto come spie al capo di una delle due fazioni in cui sono divisi i Taliban. Cosi' almeno mi pare di capire adesso. Ci sara' tempo per saperne di piu'.
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