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31 ago 2005Quarant’anni da Mattmark. Quando… “la colpa è di chi muore” ++di Eugenio D. Marino++

Canzoni che ricordano e denunciano la tragedia e l’ingiustizia della giustizia elvetica
 
ROMA -(Italia Estera) -  Il 30 agosto di quest’anno ricade il quarantesimo anniversario di una delle più gravi tragedie in Svizzera e dell’emigrazione italiana in quel Paese. Era infatti il 30 agosto del 1966 quando alla diga di Mattmark, a monte di Saas Lamagell (Vallese orientale Svizzera), il crollo di un ghiacciaio seppellì nel cantiere di lavoro per la costruzione della diga stessa ottantotto operai (cinquantasei dei quali emigrati italiani) che avevano finito il proprio turno e si erano tranquillamente recati a mensa. Dopo un leggero ronzio, che diveniva pian piano stridore, vi fu un enorme boato, causato dallo staccarsi del ghiacciaio che, rovinando sulla mensa, si trasformò nella tomba degli operai, dei quali non furono mai recuperati i corpi.
Quali responsabilità ebbero le imprese? Come si sono comportate le istituzioni e i tribunali svizzeri? Quale giustizia è stata data ai parenti delle vittime?
La canzone – che non sta mai a pontificare, ma a ricordare la storia, denunciare, sollevare problemi, portarli prepotentemente nei cuori e all’attenzione dei cittadini perché non cali l’oblio, ma si intervenga – mette in musica la vicenda di Mattamark, ne racconta l’epilogo rispondendo a queste domande e partendo proprio dagli avvenimenti della sciagura. Lo fa con un brano di Callegari, La tragedia di Mattmark, la cui musica fu composta da Vincenzo e Angelo Cavallini con Antonio Ferrari e raccolto da Leydi nel 1969 a Pavia:
 
…Dopo il turno di dura fatica
si lasciavan gli arnesi a riposo
e si andava con animo gioioso
alla mensa, dov’era pronto il cenar. […]
 
Ad un tratto si sentì un ronzio
che diventò man mano stridore,
poi sembrò di un tuono un fragore
e dall’alto veloce arrivò.
 
Non si ha il tempo nemmen di parlare
o di correre a qualche riparo,
prima ancor che il pericol fosse chiaro
la tragedia si volge al final.
 
Giunse allora la morte, veloce,
scivolando il ghiacciaio saltava
e sicura rovina portava,
niuna forza fermarlo potè. […]
 
Ancor oggi una coltre ricopre
operai ch’eran pieni di vita
e una bara di neve indurita
ma salvarli nessuno riuscì.
 
Passa il tempo e forse per sempre
resteranno dei corpi nel ghiaccio
la montagna col bianco suo abbraccio
se li è presi e li tiene con se.
 
Quella tragedia, come sempre succede tra gli animi sensibili, scosse e ispirò molti artisti, che con forza denunciarono inadempienze e chiesero giustizia. È il caso di Ezio Cuppone e Franco Trincale, che scrissero due ballate. Nel brano di Cuppone – Mattmark, edizioni Dischi del Sole, 1973, a c. d. Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera – l’attenzione è concentrata sugli insabbiamenti della magistratura, che in pratica sentenziò che tutto era dipeso dal caso: “un incidente”, che riconosceva come unici colpevoli i morti, “uccidendoli” una seconda volta. Proprio come in La cattiva strada di De André, “la colpa è di chi muore”. Una sentenza che procura ulteriore rabbia e dolore ai parenti delle vittime e ai sopravvissuti. Per loro, infatti, svanisce, dopo i compagni di lavoro, anche la speranza di vedere migliorate le condizioni di sicurezza sui cantieri:
 
…C’è chi ha detto è stato un caso,
c’è chi dice fatalità,
noi gridiamo che non è vero,
non è questa la verità.
 
A Visp han fatto un processo,
noi sappiamo cos’è successo:
chi è colpevole non si sa niente,
paga sempre la povera gente.
 
A Sion sembrava ci fosse
l’occasione per fare giustizia,
l’incredibile nero verdetto
ci ha lasciati con l’odio nel cuor. […]
 
E se un altro processo faranno
ai morti la colpa daranno,
accusati che nella baracca
si parlava con voce un po’ alta.
 
Trincale invece, nella sua Mattmark – Feltrinelli, Milano, 1970 – descrive, in dialetto siciliano e in un accorato dialogo tra padre e figli, le condizioni infernali di chi prestava a Mattmark la propria opera. Mette in luce la retorica delle istituzioni, descrivendo come esse, dopo tre soli giorni di dolore, passione e pietà, dimenticano tutto e, in uno spietato sho mast go on, lasciano che ogni cosa ricominci esattamente nell’inferno precedente:
 
Io vengo dall’Inferno figli miei
dove lu suli non si vedi mai
dove la neve ammazza li cristiani
e pigghia lu culuri di lu sangue
 
Non mi guardati mali figli mei
diavolo non è lu padri vostro
di tutti li compagni che rimasero
la muntagna non ebbi pietà. […]
 
Duluri e passioni
tre giorni di pietati
poi ripiglia l’infernu
ppi li nostri emigrati.
 
Un altro brano che richiama marginalmente Mattmark, associandola a Marcinelle e all’inferno, è La ballata di Attilio, sempre di Franco Trincale – Feltrinelli, Milano, 1970 –. Attilio è un ragazzo siciliano emigrato in Svizzera e che, seppur risparmiato dai disastri in miniera, è ucciso per mano di giovinastri elvetici razzisti e xenofobi che, ancora negli anni Sessanta e Settanta, trattano gli italiani come cani. In questo testo Trincale, oltre a ricordare le morti di Mattmark, fa un’allusione ironica e amara al fatto che le spese di viaggio per i rimpatri delle salme degli emigrati morti in circostanze violente erano a carico dello Stato – cosa che ricorre spesso nelle canzoni dell’emigrazione –. Consolazione davvero magra per una vita spezzata violentemente:
 
Se vuoi vedere l’inferno, amico mio,
vieni con me che ti ci porto io,
si chiama Mattmark e Marcinelle
senza la lana son le pecorelle.
 
Ci sta l’inferno in terra, amici miei,
dove il sole non si vede mai,
dove la neve ammazza gli emigranti
e prende il colore sanguinante.
 
Attilio lasciò il suo paesello,
baciò la mamma sotto il chiar di luna
e all’estero andò col suo fardello
in cerca di lavoro e di fortuna.
 
Trovò lavoro e venne insultato,
da giovinastri svizzeri ammazzato.
Lo risparmiò la morte in miniera
Ma lo colpì la man dello straniero. […]
 
Vestita a nero con gli occhi di pianto
la mamma poverina sta aspettando:
con il biglietto gratis, donato,
dentro una bara, Attilio è tornato.
 
C’è un treno ogni giorno alla stazione
che per l’inferno ha la destinazione.
Dell’Emigrante questa è la sorte:
in cerca di fortuna e della morte.



 
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