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06 ago 2005Ricordando con rabbia: c’era una volta Sandro Bolchi ++di Maria Laura Platania++

ROMA -(Italia Estera) -  Sandro Bolchi è morto evviva Sandro Bolchi. La proiezione nel futuro della grande lezione del passato perché gli sia lieve la terra. E così non è, bisogna ricordare con rabbia. Ricordare un tempo che non ci appartiene più, una lezione grande e perduta irrimediabilmente.
Una memoria che voglio privata perché è il privato perché meglio spiega il nostro modo di essere Italiani.
Era il 1967 e mi affacciavo alle porte del ginnasio, volenterosa e intimidita, allora i Promessi Sposi erano un tomo pesante che scandiva le giornate di studentessa e riempiva fogli di quaderni, sunti, temi, relazioni. Però era anche una storia d’amore infelice di quelle che sapevano emozionare e far scendere perle in lacrime sulle gote delle fanciulle in fiore, tutto appena un anno prima della grande rivoluzione destinata a cambiare la percezione privata collettiva del mondo, a suon di minigonne vertiginose, musica rock, contestazione generale. Ma, un’ora prima della tempesta, tutto era come immobile sospeso tra una guerra che ci aveva lasciato in brache di tela e una generazione nuova inconsapevolmente ribelle a quell’essere educata come si era sempre fatto. Lucia era insomma “una ragazza come noi” e ognuno le attribuiva il proprio volto e il proprio cuore. Ma quell’anno Lucia tentava l’impossibile, usciva dai libri e azzardava la via della grande mediazione televisiva: in bianco e nero e con le fattezze lombarde e un po’ estranee di Paola Pitagora passava dall’incubo di un cattivo voto al sogno d’amore di quelle che sarebbero state la mamme delle ragazze ingabbiate dal Grande Fratello. Non quello di Orwell, per carità, quello di Pietro Taricone. Chi era costui? E no, quella è proprio un’altra storia… Come la rivoluzione telematica, quella piccola tempesta televisiva regalava a tutti l’impressione di partecipare a un cambiamento epocale. Quello che avrebbe permesso a tutti – un passo avanti rispetto alle lezioni del mitico Maestro Alberto Manzi del “Non è mai troppo tardi” – un livello più concreto di alfabetizzazione. Un popolo nuovo e pieno di ottimistica fiducia nella vita che sentiva, in qualche modo, soddisfatta la sua necessità di vivere e capire perché non avessero più a ripetersi gli errori della storia. E non era il Renzo Tramaglino – Nino Castelnuovo, nel grigio sfumato di un ramo del lago di Como ricostruito in studio, a impartire la lezione? I suoi, come i figli di tutti, dovevano imparare, perché l’ignoranza è una brutta bestia. Sandro Bolchi ne era convinto, lui che è stato, insieme ad Anton Giulio Majano e Edmo Fenoglio, Mario Ferrero, Daniele D'Anza, uno dei padri del cosiddetto "romanzo sceneggiato", prodotto di tutt’altro spessore rispetto alle moderne fiction che pure ne rivendicano l’eredità, ma soprattutto è stato una delle personalità che hanno avuto il vanto e il merito di formare una generazione intera.
La mia, suppongo. Deve essere successo qualcosa di grave, un fenomeno sotterraneo e strisciante, se, poi, una dote così corposa e solida si è frantumata nella paccottiglia sculettante, allegra, lacrimogena, fintamente progressista dell’attuale tv. Insomma mi sembra che ci sia ben poco “Orgoglio” – prima, seconda, terza serie –da mostrare dalle “Cento vetrine” del nostro modesto “Vivere” quotidiano. Tenta minuti, spazi pubblicitari inclusi.
Se ne è andato il grande intellettuale – così mi piace ricordarlo – un anno dopo le sue ottanta primavere: età di consuntivi e riflessioni, di premi alla carriera, di lauree honoris causa. Ma oggi queste e quelle si attribuiscono volentieri a giovanissimi eroi delle due ruote – per terra - e cappellini rovesciati in aria.
La laurea in lettere, Sandro Bolchi se l’era guadagnata sui libri, come era d’uso un tempo, aveva poi esordito come attore al teatro 'Guf' di Trieste, esperienza che aveva proseguito anche dopo il trasferimento a Bologna, dove avrebbe fatto il giornalista e intrapreso l’attività di regista. E’ al cavalcavia del secolo scorso, nel 1950, che fondava con Lamberto Sechi, Vittorio Vecchi, Luciano Damiani, Giuseppe Partirei, Giorgio Vecchietti, destinati a diventare gli amici della vita, uno dei primi teatri stabili d'Italia, 'La Soffitta'.
Esperienza forte di un paio d’anni: pochi soldi.
I primi successi come regista teatrale arrivano dall’allestimento de “L'imperatore Jones” di ‘O Neill e “L'avaro” di Moliere. E’ del 1956 l’esordio come regista televisivo con la commedia “Frana allo Scalo Nord” di Ugo Betti. E’ del 1963 la trasposizione televisiva de 'Il mulino del Po', tratto dal romanzo di Riccardo Bacchelli, sceneggiato insieme all'autore, che Bolchi considererà sempre come il suo più importante lavoro televisivo: nello stesso anno realizza 'Demetrio Pianelli', dal romanzo di Emilio De Marchi, seguito da 'I miserabili' da Victor Hugo, che anticipa la sua grande epopea popolare che culmina ne 'I promessi sposi' di Alessandro Manzoni, seguito da “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, da 'I fratelli Karamazov' di Dostoevskij e poi 'Il cappello del prete' di Emilio De Marchi, nel 1972 'I demoni' di Dostoevskij, nel 1973 “Puccinì”, una biografia del musicista, nel 1974 'Anna Karenina' da Tolstoj, nel 1976 “Camilla”, da un romanzo di Fausta Cialente, nel 1978 'Disonora il padre', dal romanzo di Enzo Biagi, nel 1979 'Bel Amì', nel 1984 'Melodramma”, nel 1988 'La coscienza di Zeno' e nel 1989 'Solo'. Romanzi raccontati rispettando gli scrittori e gli spettatori, con la fedeltà e l’umiltà dei grandi quando si accostano ai grandi, tutti concluso dentro quello che gli storici hanno definito il secolo breve e i critici del tubo catodico il tempo della cosiddetta "tv di stato", monopolista e democristiana, fanfaniana e bernabeiana, massimalista e assolutista: grazie alla quale e dentro la quale si ebbero trasmissioni di fondamentale alfabetizzazione del popolo italiano, le migliori stagioni del varietà e della pubblicità d'autore, quiz avvincenti e non a base di "pacchi" e "contropaccotti", il meglio del cinema d'autore nel mondo e in prima serata; e, infine, appunto lo "sceneggiato" o "teleromanzo". Inutile perdersi in nostalgie che, alla comparazione con l'oggi, rischierebbero solo di tradursi in rabbia frustrata, soprattutto per quella stolida illusione ottica secondo la quale oggi, avendo "più scelta" avremmo anche "più qualità", laddove è avvenuto esattamente il contrario.
Alessandro Bolchi era un padano nel senso nobile del termine, sanguigno e capace di catturare l’attenzione, innamorato della latteratura e dell’opera lirica come tanti intellettuali della sua generazione, al suo attivo tante regie alla Fenice e all’Arena di Verona – memorabile una sua Carmen – tutto con quel rigore filologico che era il suo tratto distintivo.
Portare la complessità della letteratura alta, della musica dotta ad una dimensione di rappresentazione fedele ma capace di aprirsi ad una lettura più ampia e accessibile al maggior numero possibile di spettatori era la sua idea dell’intellettuale moderno. Figlio della storia ma padre dei suoi tempi. Aiutato da attori che oggi sembrano specie in via di estinzione sostituiti come sono dalla bellezza inutile degli attuali campioni delle fiction. A scorrere anche fuggevolmente i cast degli sceneggiati di Bolchi c'è da farsi venire i brividi: vi sfila il meglio del nostro parco attori teatrali dell'epoca, da Tino Carraro a Gastone Moschin, allucinante Javert e indimenticabile Jean Valjean nei "Miserabili", dall'adorata Lea Massari Anna Karenina senza pari a Ottavia Piccolo, Paola Pitagora e Nino Castelnuovo, da Corrado Pani e Umberto Orsini indimenticati Karamazov ad Alberto Lionello, "Zeno" e "Puccini” di incanto. E poi Carla Gravina, Luigi Vannucchi, Renzo Palmer, Ilaria Occhini, Salvo Randone, Mario Valgoi, Raf Vallone, Giancarlo Sbragia, Raoul Grassilli: quando la televisione era teatro e il teatro un mondo da cui attingere senza sporcarsi né provare vergogna.
Sandro Bolchi è stato un maestro di quelli che, morendo, chiudono dietro di loro un mondo intero, quelli di cui si accetta la perdita , solo a distanza di molti anni e nella consapevolezza che, in realtà, morirono, come nel suo caso, se non in tempo, almeno un attimo prima d’essere travolti dal fango del tempo. A Roma, a Piazza del Popolo, nella Chiesa degli Artisti al suo ultimo saluto c’era solo la famiglia comprese Paola Pitagora e Lea Massari, entrambe. Totalmente assente la Rai di oggi che non ha inviato nè rappresentanti ufficiali né fiori e di certo non farà neanche opere di bene.
Da parte mia, resto convinta del fatto che oggi i Promessi Sposi siano tornati a essere un tomo pesante sulle spalle fragili della nostra gioventù con l’ombelico in vista e un banco di prova inutilmente severo.

                                                           Maria Laura Platania             




 
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