Terra promessa – il sogno argentino
ANCONA - E’ in dirittura d’arrivo Terra promessa-il sogno argentino, primo atto del progetto Phoenix-Viaggio nella memoria, ideato dalla Regione Marche (Consiglio regionale e Assessorato alla Cultura) al fine di raccontare l’emigrazione marchigiana, valorizzarla come risorsa umana e culturale e trasmetterne la memoria alle nuove generazioni che la ignorano completamente.
Come suggerisce il titolo, il libro racconta la storia dei marchigiani in Argentina, paese verso cui si è indirizzato il più consistente flusso migratorio regionale.
Anche se vi figurano intellettuali, aristocratici e politici, l’attenzione è concentrata sulla gente comune che l’autrice, Paola Cecchini, ha seguito in tutte le fasi della loro esperienza.
Il viaggio oltreoceano costituiva un evento fortemente ansiogeno per molti di loro, che non avevano mai lasciato il paese natìo e spesso non avevano mai visto il mare.
È partida la nave e ogni tanto se vedea Genova più piccola, più piccola, poi no la sò vista più, do’ madonna stava, do’ stavo; li la testa ma cominciato a fadigà. Prima non me ero accorto mi sembrava un gioco, un viaggio corto, non ero partido mai de casa- racconta Armando Sagretti di Civitanova Marche, residente a Pergamino, nella pampa bonaerense.
La maggioranza di loro, ignara delle più elementari nozioni di geografia, non si rendeva conto di dove stava andando (Pensavamo, come tanti a quel tempo nelle Marche, che l’America fosse solo quella del Nord, gli Stati Uniti per intenderci, e solo quando la nave passò l’equatore ci rendemmo conto della distanza e del luogo verso il quale ci stavamo dirigendo).
E’ impossibile non intenerirsi leggendo le decine di storie raccontate, attraverso interviste e terstimonianze dirette: la traversata veniva chiamata nelle Marche lu passàgghju (termine che suona sinistro perché designa nel parlare allusivo anche il trapasso dell’uomo da questo all’altro mondo).Come erano vestiti a bordo? Indossavano quelli che erano chiamati li pagni de lu passagghiu, gli indumenti della traversata, i più vecchi che avevano nel guardaroba e che poco prima dello sbarco venivano gettati nella acque del porto e sostituiti con li pagni voni: in tale circostanza si tagliavano capelli, baffi, barba e unghie, tutte cose che per superstizione avevano lasciato crescere durante il viaggio.
Per le nausee, facevano ricorso ad un rimedio empirico antichissimo: quello di mangiare olive nere conservate appena si fossero avvertiti i primi sintomi; per garantirsi la protezione divina, tenevano in tasca l’uovo sodo deposto il giorno dell’Ascensione. D’altronde, lu mare ‘mbara a ppregà, recitava un adagio popolare della nostra regione.
Arrivavano spaesatissimi nell’immenso porto di Buenos Aires; avevano in mare lu spapiè rrusciu (il passaporto rosso), valido tre anni che li bollava spesso come analfabeti.
Giordano Buresta, fanese di Merlo, rivive nell’intervista rilasciata, lo stato d’animo dell’arrivo condensandolo in queste eloquenti parole: Un mare di gente e noi senza salvagente.
Il mito ruralista della terra, ossia la terra ai contadini si rivelò per molti marchigiani un sogno o perlomeno un’impresa difficile da realizzare: è vero che le leggi argentine miravano a questo, ma i marchigiani, partiti in numero cospicuo soltanto nell’ultima decade dell’Ottocento, arrivarono almeno venti anni dopo piemontesi, lombardi, veneti e friulani, e rimasero pertanto esclusi dalla concessione gratuita delle terre, dall’acquisto e dallo sfruttamento degli appezzamenti più fertili, siti nei luoghi migliori ed attribuiti a condizioni molto vantaggiose.
Nonostante ciò, l’obiettivo degli emigranti marchigiani rimase sempre l’acquisto di un fondo, cui dedicarono ogni sacrificio: A casa mia nei primi cinque anni si mangiava solo polenta, polenta a pranzo e a cena, perché volevamo comprare un campo - racconta Vincenzo M. di Camerino, residente a Carlos Pellegrini.
Nella pampa i marchigiani sono stati anche autori di un primato, o più precisamente di una scoperta rivoluzionaria, conosciuta a livello internazionale col nome di semina diretta: consiste nella semina del campo non arato, e permette il riposo e la salvaguardia del suolo che rischia spesso la desertificazione. Nella provincia di Mendoza, poi, sono stati i primi a praticare l’olivicoltura e gli unici ad ideare un museo dedicato al vino, tuttora unico in Argentina ed in tutto il continente sudamericano.
Il libro racconta la partecipazione dei marchigiani al famoso grito di Alcorta, lo sciopero agrario più importante di tutto il continente sudamericano, cui aderirono nonostante l’innata riservatezza ed il rispetto ancestrale che nutrivano sovente per il più forte; il loro atteggiamento critico nei confronti dei criollos, specialmente meticci, tanto diversi per costumi e cultura; il loro rifiuto nell’adottare la cittadinanza argentina, per non tradire la propria bandiera; la condizione di autonomia vissuta per la prima volta dalle vedove bianche.
I motivi della partenza? Non solo il desiderio di migliorare il proprio futuro, ma anche il timore di un’ulteriore guerra mondiale, i soprusi patiti, il desiderio di avventura ed i motivi politici (A papà no le gustava Mussolini …e qui in Argentina a trovato Perón. Per me era simile a Mussolini solo che Perón faceva tutto con la risa, Mussolini serio, ossia Mussolini dava le bastonate e Perón no, ossia le bastonate le dava de notte piano piano. L’osse rotte lo stesso).
Nel libro compaiono storie il cui impatto emotivo è molto forte : c’è chi ha vissuto il terribile terremoto di San Juan, chi è stato costretto ad atti di cannibalismo durante la seconda guerra mondiale, chi è stato deportato in Siberia.
Un’intervista, infine, colpirà i lettori: quella rilasciata all’età di 103 anni da Leone Tacchetti, nato a Falerone (Ap) e residente a Bahía Blanca.
Paola Cecchini